Nella zona di Narni , si iniziano a vedere le prime
trasformazioni portate dal nuovo Governo. La Ferrovia iniziata sotto il governo
Pontificio, riprese ad essere costruita nel tratto delle gole del Nera da Orte a Terni e
in poco tempo su portata a termine .
Intanto vari Garibaldini divennero fedeli amici di Garibaldi , in
particolare troviamo Froscianti di Collescipoli.
Giovanni Froscianti
(Collescipoli 1811-1885)
Giovanni Froscianti, ternano, era uno spiritaccio imparentato col demonio. Fu con
Garibaldi in tutte le battaglie a partire dal 1848, fino al 1867; poi visse con lui a
Caprera dove fece il segretario in alternanza con Basso. Morì nell'85 a 74 anni.
Nel palazzo Comunale di Collescipoli oltre ad una lapide è conservato,
in un locale accanto alla sala consiliare il beccaccino, una piccola imbarcazione
usata da Giuseppe Garibaldi a Caprera.
Garibaldi dopo la gloriosa vicenda dei Mille e della conquista nel 1860 del regno delle
due Sicilie, voleva provare a prendere Roma .
Aspromonte
La giornata dell'Aspromonte ebbe luogo il 29 agosto 1862, quando l'esercito regio
fermò il tentativo di Garibaldi e dei suoi volontari di completare una marcia dalla
Sicilia verso Roma e scacciarne papa Pio IX.
La giornata dell'Aspromonte è riportata nella toponomastica di molte città italiane.
La pallottola estratta dal piede del Garibaldi è oggi esposta al Museo del
Risorgimento di Roma, al Vittoriano. Il punto dove fu ferito Garibaldi è oggi ricordato
da un cippo: Cippo Garibaldi. Ancora sopravvive il pino al quale il generale, ferito, si
era appoggiato.
Quando Vittorio Emanuele II divenne re d'Italia il 17 marzo 1861, il nuovo Regno ancora
non controllava né Venezia, né Roma. La situazione delle terre irredente (come si
sarebbe detto alcuni decenni più tardi) costituiva una fonte di tensione costante per la
politica interna italiana e la principale priorità della sua politica estera.
Roma, in particolare, era stata proclamata capitale del regno d'Italia nella seduta del
Parlamento del 27 marzo 1861, dopo un vibrante discorso del Cavour, morto poi il 6 giugno
successivo. Tale obiettivo si scontrava con lo Stato Pontificio di papa Pio IX, convinto
della necessità di conservare potere temporale quale garanzia di libero esercizio
dell'azione spirituale. La questione romana, in ogni caso, aveva spinto, nel 1862, alle
dimissioni il successore di Cavour, il toscano Ricasoli, che aveva lasciato il posto a
Rattazzi.
Il nuovo primo ministro non aveva fama di essere particolarmente rispettoso nei
confronti del Papa Re: infatti negli anni Cinquanta, da ministro degli Interni del Regno
di Sardegna, era stato tra coloro che avevano portato avanti la politica di soppressione
delle corporazioni religiose. Non si sa, però, se sia stata sua la decisione di
temporeggiare quando giunse la notizia che Garibaldi, giunto in visita in Sicilia, aveva
preso a radunare una schiera di volontari e muovere su Roma.
L'arrivo di Garibaldi in Sicilia
Il 27 giugno 1862 Garibaldi si era imbarcato a Caprera per la Sicilia. Non vi sono
certezze circa gli scopi del viaggio. Tra le diverse ipotesi, è possibile identificare
una logica interpretativa comune:
* ipotesi politica: gli osservatori erano concordi nel riconoscere l'ascendente
magnetico che esercita Garibaldi in Palermo e sulle popolazione dell'isola ... [ivi] il
Governo del Re è sotto il veto ed il placet del Generale[1]. Scopo della visita sarebbe
stata, quindi, rilanciare l'iniziativa del cosiddetto partito 'democratico'[2],
valorizzando il ruolo del suo leader incontrastato.
* ipotesi militare: riguardo alla forma di tale rilancio, a nessuno sfuggiva la
naturale tendenza del geniale uomo d'arme di declinare la propria azione attraverso la
mobilitazione militare dei moltissimi disposti ad arruolarsi al suo comando. Restava da
saggiare la praticabilità di tale iniziativa e l'atteggiamento del governo. Alla prova,
la prima si rivelò fortissima, il secondo incertissimo. L'obiettivo di tale azione
militare era, però, incerto. Era, infatti, irragionevole mirare Roma partendo da così
lungi. Altri sostennero che Garibaldi fosse giunto in vista di una spedizione di volontari
in Grecia, allora scossa da una forte instabilità interna. La spedizione sarebbe stata
delineata in intesa (indiretta) con il Sovrano, senza giungere ad alcuna maturazione[3].
* ipotesi simbolica: l'unica circostanza certa era l'altissima simbolicità della
presenza dei reduci della spedizione dei mille, a soli due anni di distanza, sui luoghi
del loro trionfo, in presenza della stessa popolazione, per giunta giubilante.
In definitiva sembra possibile affermare che il generale fosse sbarcato sull'isola per
saggiare di persona la popolarità della politica democratica e di un'eventuale ripresa di
iniziativa rivoluzionaria. Le accoglienze a Palermo ed a Marsala furono talmente enormi,
da deciderlo a guidare una nuova spedizione, partendo proprio da Marsala, come due anni
prima. L'obiettivo maturò, forse, per via: proprio nel corso di uno di questi
festeggiamenti, pare a Marsala, dalla folla qualcuno gridò o Roma o morte. Garibaldi
rimase colpito dall'immediatezza del messaggio e lo assunse a proprio motto.
Le autorità, terrorizzate e prive di ordini, lasciarono che egli facesse avanzare
indisturbate tre colonne sino a Catania, raccogliendo volontari.
L'eventualità di ripetere la spedizione dei Mille [modifica]
Quando le notizie giunsero a Torino, Rattazzi e il Re dovettero valutare attentamente
la opportunità di ripetere, appena due anni dopo, il successo ottenuto da Cavour con la
spedizione dei Mille.
Si trattava, in effetti, di uno schema simile a quello del 1860: l'Italia era piena di
volonterosi, vogliosi di mettersi sotto la guida di Garibaldi. L'armamento ed i quadri
attinti dalle vecchie Camicie Rosse. I finanziamenti sarebbero giunti dal governo. Il
successo della spedizione avrebbe provato l'incapacità del Papato di garantire, in forme
accettabili, l'ordine pubblico nei propri domini.
Vi erano, tuttavia, due differenze che, nel corso delle settimane, si sarebbero
dimostrate insuperabili: mentre la caduta del Borbone era apparsa come lo sviluppo di una
sollevazione interna (la rivolta siciliana), la caduta del Papato sarebbe senz'altro
apparsa come un'aggressione esterna: un'aggressione italiana. Il governo italiano,
inoltre, non poteva godere dell'appoggio della Francia di Napoleone III la quale, anzi, si
era eretta a potenza protettrice del Papato. Pio IX, d'altra parte, non aveva commesso
l'errore del Borbone di appoggiarsi all'Austria, anzi faceva totale affidamento, sin dal
1849, sulle armi francesi.
Il nuovo Regno, infine, era duramente impegnato nella repressione del brigantaggio che,
in quella prima fase, aveva assunto le forme di una guerriglia capillare e diffusa un po'
su tutte le antiche province continentali delle Due Sicilie: sarebbe dunque stato
difficile riprendere la politica di espansione territoriale prima di aver messo sotto
controllo l'ordine pubblico nel Mezzogiorno.
La crescente ostilità del governo italiano
La risposta del governo di Torino fu, alla prova dei fatti, assai ferma e relativamente
tempestiva. Il prefetto di Palermo, Pallavicino venne destituito per aver assistito, senza
reagire, all'infuocato discorso tenuto da Garibaldi il 15 luglio, quando aveva attaccato
Napoleone III (il principale alleato del Regno d'Italia) e invocato la liberazione di
Roma.
Il 3 agosto il Re pubblicò un proclama in cui sconfessava "giovani
dimentichi
della gratitudine verso i nostri migliori alleati" e ne condannava
le "colpevoli impazienze". Negli stessi giorni Rattazzi proclamava in tutta la
Sicilia lo stato d'assedio.
Giorgio Pallavicino venne sostituito il 12 agosto dal generale Cugia e poi, il 21
agosto, da Cialdini, mentre il 15 agosto il Mezzogiorno continentale veniva affidato a La
Marmora e messo sotto stato d'assedio: Cialdini e La Marmora erano i due più importanti
militari italiani, e il loro incarico è un chiaro indice dell'importanza che il governo
attribuiva alla faccenda.
Una squadra navale (affidata ad Albini) fu incaricata di impedire il passaggio di
Garibaldi in Calabria. Le truppe dislocate in Calabria, numerose in quanto impegnate nella
lotta al brigantaggio, vennero allertate (e proprio ad esse appartenevano i bersaglieri
che avrebbero dato il maggior contributo a bloccare la marcia di Garibaldi).
Il regno d'Italia pareva mettere in campo tutta la propria possibile credibilità
patriottica: il generale che avrebbe fermato Garibaldi di lì ad un mese in Aspromonte, il
colonnello Emilio Pallavicini era medaglia d'oro per l'assedio di Civitella del Tronto
(l'ultima fortezza presa al Borbone il 20 marzo 1861), veterano di Crimea e della
liberazione di Perugina, ferito a San Martino; Luigi Ferrari, l'ufficiale che sarebbe
stato ferito dai garibaldini negli scontri, era veterano della prima e della seconda
guerra di indipendenza nonché dell'Assedio di Gaeta, medaglia d'argento a San Martino ed
alla liberazione di Ancona. Ma come fermare Garibaldi: un uomo che tanto aveva fatto per
la Nazione e che godeva dell'illimitata stima dell'opinione pubblica italiana e liberale
nel mondo?
Lo sbarco in Calabria
A Catania Garibaldi prendeva possesso dei piroscafi Abbattucci e Dispaccio,
"capitati nel porto di Catania", e prendeva il mare nella notte. Dopo una breve
navigazione notturna, alle quattro del mattino del 25 agosto 1862, sbarcava alla testa di
tremila uomini in Calabria, tra Melito e Capo dell'Armi.
Una squadra della Marina Regia era di vedetta. Non si sa cosa accadde all'uscita dal
porto: i capitani sostennero di non aver avvistato le navi in uscita, ma Garibaldi, nelle
Memorie, afferma il contrario. Sicuramente, appena i volontari presero terra ed
imboccarono la strada del litorale verso Reggio Calabria, essi vennero bombardati da una
corazzata italiana, mentre le avanguardie furono prese a fucilate da truppe uscite da
Reggio. Tanto da spingere Garibaldi a deviare per il massiccio dell'Aspromonte. In ogni
caso la posizione di sbarco venne segnalata e la colonna intercettata. Dunque, o i
capitani di vedetta a Catania non se la sentirono di eseguire ordini che il capitano della
corazzata, al contrario, seguì alla lettera, ovvero si preferì evitare uno scontro in
mare che avrebbe comportato assai più vittime garibaldine di uno scontro sulla
terraferma.
In ogni caso Garibaldi non voleva uno scontro: diede ordine di non rispondere al fuoco
e proseguì per la montagna, lontano dai cannoni della Marina Regia e cercando di evitare
di essere agganciato. La sera del 28 agosto 1862 la colonna raggiunse una posizione ben
difendibile, a pochi chilometri da Gambarie, nel territorio di Sant'Eufemia d'Aspromonte.
La colonna aveva marciato per tre giorni, e si sfamò saccheggiando un campo di patate.
Nel frattempo si era ridotta a circa 1 500 uomini, a causa delle diserzioni e degli
arresti. Verso mezzogiorno del 29 agosto Garibaldi fu informato dell'arrivo di una grande
colonna del Regio Esercito. Ma decise di rimanere ad aspettare la truppa. Una decisione
che, nelle Memorie, si rimproverò. Era altresì difficile continuare una fuga infinita
che si prospettava lunga e senza risultati.
Schierò, comunque, la colonna in ordine di battaglia, sull'orlo di un bosco, in
posizione dominante: la sinistra su un monte, Menotti al centro, Corrao a destra.
Lo scontro a fuoco
I regolari presero contatto con i volontari alle quattro di pomeriggio del 29 agosto.
Ben 3 500 uomini. Ben disposti, i volontari osservavano la veloce marcia d'avvicinamento
dei Bersaglieri, guidati da Pallavicini.
Giunti a lungo tiro di fucile, Pallavicini dispose la truppa a catena, i bersaglieri
davanti, ed avanzò risolutamente sui volontari "a fuoco avanzando".
Foro d'entrata della pallottola nello stivale Giuseppe Garibaldi
A quel punto il Generale corse di fronte alla propria linea e prese ad urlare di
cessare il fuoco: "No, fermi. Non fate fuoco. Sono nostri fratelli". Fu ubbidito
dal grosso dei volontari, sinché il centro del Menotti prese a rispondere, anzi caricò i
bersaglieri e li respinse. Garibaldi sostenne che si trattava di "poca gioventù
bollente" che reagì per la insostenibile tensione. Sicuramente avevano contravvenuto
ad un suo ordine esplicito.
Negli altri settori, gli assalitori, non trovando resistenza, continuavano a salire
sparando ed accadde l'inevitabile: Garibaldi, in piedi allo scoperto fra le due linee,
ricevette due palle di carabina, all'anca sinistra e al malleolo destro, quest'ultima
ferita fu causata dal tenente Luigi Ferrari, comandante di compagnia del 4º battaglione.
Nel contempo veniva ferito al polpaccio sinistro anche Menotti. Immediatamente dopo anche
Ferrari venne colpito, dal fuoco di risposta, nel medesimo punto. L'episodio della ferita
di Garibaldi sarà ricordato in una celebre ballata cantata su un ritmo di marcia dei
bersaglieri.
Caduto il generale, i volontari si ritrassero nella foresta retrostante, mentre i loro
ufficiali correvano attorno al ferito. Anche i bersaglieri cessarono gli spari. Lo scontro
era durato una decina di minuti, abbastanza per causare la morte di sette garibaldini e
cinque regolari e il ferimento di venti garibaldini e quattordici regolari: se i volontari
si fossero difesi, tenuto conto della loro forte posizione, la sproporzione delle vittime
sarebbe stata fortemente a sfavore dei regolari. Alcuni bersaglieri che lasciarono le
proprie posizioni per raggiungere le file dei garibaldini, vennero in seguito arrestati e
fucilati.
L'arresto di Garibaldi
Garibaldi ferito dopo la battaglia
Garibaldi era appoggiato ad un pino, (ancor oggi esistente) con in bocca un mezzo
toscano. Veniva soccorso da tre chirurghi (Ripari, Basile e Albanese), aggregati ai
volontari.
Sopraggiunse dalle linee del Regio Esercito il tenente Rotondo a cavallo: senza
salutare intimò a Garibaldi la resa. Il Generale lo rimproverò e lo fece disarmare.
Intervenne allora il comandante colonnello Pallavicini che ripeté la richiesta, ma dopo
essere sceso da cavallo, parlandogli all'orecchio e con la dovuta cortesia. Tra i
bersaglieri Garibaldi riconobbe soldati ed ufficiali che erano stati con lui in campagne
precedenti: li vide rattristati e contriti.
Il Generale venne adagiato su una barella di fortuna, e trasportato a braccia in
direzione di Scilla. A tarda sera venne ricoverato nella capanna di un pastore di nome
Vincenzo, bevve brodo di capra e dormì su un letto improvvisato fatto dei cappotti
offerti dagli ufficiali del suo Stato Maggiore. All'alba riprese la marcia e il Generale
venne riparato dal sole con un improvvisato ombrello di rami d'alloro. Giunto al mare,
pare che il municipio di Scilla, evidentemente non del tutto conscio delle circostanze,
proponesse di offrire un rinfresco di saluto, ottenendone un prevedibile rifiuto.
Garibaldi chiese di essere imbarcato su una nave inglese. Tuttavia era prigioniero e,
ovviamente, il permesso gli venne rifiutato.
Venne invece imbarcato sulla pirofregata Duca di Genova, insieme a Menotti, una decina
di ufficiali ed i tre medici. Assisteva, dalla tolda della Stella d'Italia, il generale
Cialdini incaricato straordinario per la direzione politica e militare della Sicilia e che
il 26 agosto, incontrando a Napoli La Marmora si era riservato anche il comando della zona
dove operava Garibaldi. Cialdini non si degnò neppure di salutare il vinto. Episodio che
testimonia l'ostilità con la quale l'avventura era stata accolta dai moderati.
La permanenza del Garibaldi in fortezza
Sbarcato il 2 settembre nel porto militare della Spezia, il Generale fu destinato al
Varignano, un ex-lazzaretto convertito in stabilimento penitenziario, che allora ospitava
250 condannati ai lavori forzati. Venne alloggiato in un'ala della palazzina del
comandante del carcere, una stanza per sé e cinque per familiari e visitatori.
La ferita più insidiosa era quella al piede destro. La prima relazione medica
recitava: "La palla è penetrata a tre linee al di sopra e al davanti del malleolo
interno: la ferita ha una figura triangolare a lembi lacerocontusi del diametro di mezzo
pollice circa. Alla parte opposta, mezzo pollice circa al davanti del malleolo esterno, si
avverte un gonfiore che sotto il tatto è resistente...". Proprio il gonfiore dovuto
all'artrite (che da anni perseguitava il Generale) rese difficile verificare la posizione
della pallottola. Né si era certi della sua reale presenza. Essa venne accertata solo a
fine ottobre alla Spezia[4], e l'estrazione avvenne solo il 23 novembre a Pisa, ad opera
del professor Ferdinando Zanetti.
Dei circa 3 000 volontari guidati da Garibaldi, solo alcune centinaia riuscirono a
fuggire. Vennero arrestati 1 909 garibaldini, riaccompagnati alle loro dimore 232
minorenni, mentre i militi che avevano abbandonati i loro reparti regolari per unirsi a
Garibalidi, vennero rinchiusi nelle antiche fortezze sarde (Alessandria, Vinadio, Bard,
Fenestrelle, Exilles, Genova). Essi (e lo stesso Garibaldi) vennero amnistiati alla prima
occasione possibile: il matrimonio di Maria Pia di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele II
con il re del Portogallo il 5 ottobre 1862.
Dopo l'amnistia e l'estrazione della pallottola, Garibaldi rientrò a Caprera, da dove
non si mosse per i successivi due anni (sino al trionfale viaggio in Inghilterra).
Rientrò in combattimento solo per la terza guerra di indipendenza guidando una brillante
campagna nel Trentino culminata nella vittoria di Bezzecca.
Le autorità militari in Sicilia, cercando di farsi perdonare la eccessiva tolleranza
dell'agosto, attuarono una vera e propria "caccia al garibaldino", che portò al
massacro di sette volontari nella provincia di Messina (eccidio di Fantina).
Le accuse a Rattazzi e al Re
Restava il fatto che Garibaldi avesse potuto traversare l'intera Sicilia senza essere
fermato. Rattazzi venne quindi accusato di averlo incoraggiato, o perlomeno di aver
intrattenuto rapporti ambigui, sicuramente di non averne rifiutato le intenzioni con
sufficiente decisione. I sospetti si indirizzarono anche sul Re, che aveva la tendenza a
condurre una politica personale, separata da quella del governo. L'accusa (ad esempio
Denis Mack Smith) è che uno dei due, o entrambe, abbiano illuso Garibaldi circa la
realizzabilità dell'impresa. Salvo abbandonarlo quando la marcia aveva già avuto avvio.
Tali commenti, in effetti, riprendono le accuse lanciate già nel 1862 dagli ambienti
garibaldini e mazzininiani ma, a smentirle, basterebbero gli interventi degli antichi
commilitoni di Garibaldi, come Cucchi e Türr, o di Medici che, inviandogli il proclama
del Re, lo scongiurava di evitare la guerra civile. A Regalbuto, prima di imbarcarsi per
la Calabria, il Generale fu raggiunto da una delegazione di deputati della Sinistra,
latrice di una missiva firmata anche da Crispi di simile tenore egualmente infruttuosa.
L'unico elemento certo è che nel marzo 1862 Garibaldi era a Torino e vi incontrava
più volte il Re, e Rattazzi. Certamente il desiderio di vedere liberate Venezia e Roma
era autenticamente popolare e restavano obiettivi fortemente condivisi dai governi. Rimane
però aperta la questione se ciò basti ad accusare di errore politico il governo regio:
se sia stato il coraggio ed il senso dello Stato di quest'ultimo a prevalere, o
incapacità di raggiungere con la presa di Roma uno degli obiettivi centrali del
Risorgimento.
Rimane il dubbio se il Rattazzi abbia davvero pensato di convincere Napoleone III a
lasciargli prendere Roma per impedire ai radicali di conquistarla con la forza, come
tramanda un'antica tesi di parte mazziniana. Sicuramente, però, il Rattazzi era stato
responsabile di avere, in una prima fase, temporeggiato: per questo fu costretto alle
dimissioni nel novembre 1862.
Conseguenze
La leggenda nera del governo italiano
Il ferimento di Garibaldi ebbe grande risonanza: a Londra 100 000 persone si radunarono
a Hyde Park per manifestare la loro solidarietà. Lord Palmerston offrì un letto speciale
per la convalescenza dell'eroe.
Il partito mazziniano fece, in particolare, leva sull'episodio, per dichiarare tradito
l'accordo tacito fra i repubblicani e la monarchia, mentre per i monarchici erano i
mazziniani a tradire con iniziative avventate gli interessi della Nazione. Il governo
venne accusato di aver combattuto "per il Papa" e di aver tradito la rivoluzione
italiana. Lo stesso Garibaldi accusò nelle Memorie il Pallavicini di aver comandato ai
suoi soldati l'"esterminio" dei volontari.
Tali posizioni hanno avuto una certa risonanza e sono state ripetute fino ai nostri
giorni da molti storici (ad esempio Denis Mack Smith), mentre altri, compresi alcuni
contemporanei, dimostravano una più generale avversione verso disavventure come quella
dell'Aspromonte, sottolineandone l'inattuabilità.
La convenzione franco-italiana
Dimessosi Rattazzi, dopo un brevissimo governo guidato da Farini, nel 1863 il Re
incaricò il moderato bolognese Marco Minghetti.
Facendosi forte della decisa azione italiana contro l'eroe nazionale, Minghetti fu in
grado di negoziare un favorevole accordo con la potenza protettrice del Papa, la Francia:
con la convenzione franco-italiana del 15 settembre 1864, il Regno d'Italia si impegnava a
rispettare l'indipendenza del residuo "Patrimonio di San Pietro" e di
difenderla, anche con la forza, da ogni attacco dall'esterno (ma non dall'interno);
Napoleone III a ritirare le sue truppe entro due anni, in modo da lasciare all'esercito
pontificio il tempo di organizzarsi in una credibile forza di combattimento.
La convenzione aveva lo scopo di eliminare dalla penisola ogni presenza militare
francese, senza pregiudicare eccessivamente le aspirazioni italiane su Roma. Era un
obiettivo importante e lo stesso Garibaldi, all'inizio della spedizione dell'Aspromonte,
aveva dichiarato inammissibile tollerare ulteriormente la presenza di truppe straniere in
Italia. Si otteneva, inoltre, il non intervento francese in caso che il potere temporale
fosse stato rovesciato da un movimento popolare interno: il caso non si verificò ma, per
comprendere l'importanza della concessione francese, occorre ricordare che Pio IX era
stato cacciato già una volta dal popolo romano, appena 15 anni prima, nel 1849
(Repubblica Romana).
Il trasferimento della capitale a Firenze
La convenzione includeva anche una clausola segreta, la vera contropartita italiana: il
trasferimento della capitale da Torino a Firenze. Per dimostrare la propria estraneità al
controverso provvedimento (moti di Torino), il Re si disse non informato e licenziò
Minghetti con un telegramma sostituendolo il 28 settembre 1864 con Alfonso La Marmora.
Quest'ultimo completò di fatto il trasferimento della capitale a Firenze in tempo record
(3 febbraio 1865).
La continuazione delle tensioni per Roma capitale
L'obiettivo dell'annessione di Roma rimaneva, comunque, assai popolare, né il regno
d'Italia rinunciò al proposito di fare della città la sua nuova capitale, come sancito,
a suo tempo, da Cavour in persona.
Solo cinque anni dopo, profittando della immensa popolarità derivatagli dalla vittoria
di Bezzecca, Garibaldi avrebbe ritentato l'impresa (battaglia di Mentana). Era di nuovo al
potere Rattazzi, che, questa volta, agì preventivamente facendo arrestare Garibaldi. Ma
quando il generale sfuggì rocambolescamente da Caprera e sbarcò in Toscana, Rattazzi fu
costretto dal Re a rassegnare nuovamente le dimissioni (19 ottobre 1867), e terminò la
sua carriera politica.
La questione romana venne risolta solo il 20 settembre 1870 quando, sconfitto Napoleone
III dai Prussiani nella battaglia di Sedan e proclamata in Francia la repubblica, il
governo di Giovanni Lanza fu, finalmente, libero di inviare un corpo d'armata al comando
di Cadorna che entrava a Roma attraverso la Breccia di Porta Pia. Da segnalare che a
Cadorna vennero affiancati, come generali di divisione, due ex-garibaldini: Bixio e
Cosenz.
Ricordi
Per le operazioni in Aspromonte venne conferita la medaglia di bronzo alla 6ª ed alla
25ª brigata. Medaglia d'oro al valore individuale per grave ferita al tenente Luigi
Ferrari il bersagliere che ferì Garibaldi.
La famosa canzoncina "Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba..." è
rimasta, dal quel lontanissimo 1862, ancora assai popolare.
La giornata dell'Aspromonte è riportata nella toponomastica di molte città italiane.
La pallottola estratta dal piede del Garibaldi è oggi esposta al Museo del
Risorgimento di Roma, al Vittoriano. Il punto dove fu ferito Garibaldi è oggi ricordato
da un cippo: Cippo Garibaldi. Ancora sopravvive il pino al quale il generale, ferito, si
era appoggiato.
Ancor oggi, quando taluno vuole accusare un governo italiano di tradire le aspettative
popolari o di tradire la Nazione, cita la giornata dell'Aspromonte.