Sottolinea l’autorevole Paul Sabatier: "Sembra
che Francesco abbia avuto per Narni come per i paesi circunvicini una specie di
predilezione".
Il Santo giullare giunse per la prima volta nell’avito castello di Narni nel
1209-1210, dopo aver incontrato, a Roma, papa Innocenzo III ed aver ottenuto, dallo
stesso, l’approvazione "orale" della "Regola".
Riferiscono le fonti: "Ebbri di letizia, i "Penitenti di Assisi",
congedatisi dal Pontefice, ripresero la via del ritorno.
A quei tempi, due erano le vie che da Roma avvicinavano alla lussureggiante Valle
spoletana: la "Via Flaminia" e la "Via fluviale".
La seconda era rappresentata dai fiumi Tevere e Nera, a ridosso della quale (riva
sinistra), scorreva parallelo il "tratturo delle transumanze" che, in poco più
di due giorni, dalla Città Eterna, faceva giungere al borgo di Narni.
Prerogativa della mite compagnia di frati era quella di predicare non solo nelle piazze
delle città, in cui era sempre presente l’autorità ecclesiastica, ma soprattutto
nelle campagne, nei centri rurali: gli antichi "pagi", ove erano ancora
largamente praticati i riti e le credenze dell’antica religione pagana.
La "Via delle transumanze" toccava un gran numero di "pagi"; fu
questo il percorso scelto da Francesco ed i suoi "fratres".
Da Roma ad Orte a bordo di una "sandala" (tipica imbarcazione fluviale, così
denominata per il particolare fondo piatto), quindi, dopo una durevole permanenza
(quindici giorni) nei pressi di una cappellina romanica immersa nell’amena campagna
ortana (vd. I Cel., 34), il gioioso drappello di Minoriti giunse nel castello di Montoro.
Da Montoro, i "Penitenti" di Assisi, incantati dall’orrida bellezza
della stretta del Nera, costituita dalle rocce strapiombanti del monte Maggiore da una
parte e da quelle del monte Santacroce dall’altra, entrarono nelle viuzze di Narni,
non prima, probabilmente, di essersi rifocillati alla mensa benedettina della vetusta
abbazia di S. Cassiano.
E a Narni, frate Francesco, probabilmente dopo essersi posto sul punto più "in
vista" della principale piazza del castello, predicò; narra lo Iacobilli:
"Predicando San Francesco nella provincia dell’Umbria con grandissimo spirito, e
fervore; e operando molti miracoli, il Beato Stefano nobile narnese havendo un giorno
udito predicare, e fare molte penitenze e miracoli; compunto grandemente, e illuminato
dallo Spirito Santo, abbandonò quanto haveva, e seguì esso Serafico Padre, ponendosi
sotto la sua obedienza; e fu da lui l’anno mille ducento diece vestito del suo habito
dell’Ordine Minore; e fu uno de 72, discepoli, e delli primi, dopo li dodici compagni
di esso Santo"" (P. Rossi, Francesco d’Assisi e la Valle ternana, 1997).
Francesco d’Assisi, tornerà a Narni: nel 1213, invitato dal vescovo Ugolino, dopo
un "fruttuosissimo" viaggio apostolico compiuto a Terni, Collescipoli,
Stroncone, S. Urbano, Calvi, il Santo assisiate, prima di raggiungere Amelia e Sangemini,
pervenne a Narni, accolto con entusiasmo dal vescovo Ugolino (tormentato per il
"lievitare", nella sua diocesi, della "filosofia" catara).
Era, presumibilmente, il febbraio del 1213.
Narrano le cronache: "Nel 1213, la predicazione di S. Francesco a Narni durò vari
giorni, e fu accompagnata da due miracoli" (N. Cavanna, Umbria francescana, 1910);
riferisce il Celano: "(...) l’uomo di Dio Francesco, recatosi a Narni, vi rimase
parecchi giorni.
Uno della
città, di nome Pietro, stava in letto paralizzato, e da cinque
mesi privo dell’uso di tutte la membra, così che non
poteva punto alzarsi, e nemmeno muoversi un poco, riuscendo solo -
mentre non poteva servirsi né dei piedi, né delle mani,
né del capo - a muovere la lingua e aprire gli occhi.
Or costui, sentendo che era giunto a Narni san Francesco, fece dire al vescovo della
città che in nome della misericordia divina, si degnasse mandargli il servo
dell’Altissimo, perchè nutriva fiducia di essere liberato dalla sua infermità per
la vista e la presenza del Santo.
E veramente avvenne che, come il beato Francesco gli fu presso e tracciò un segno di
croce su di lui dalla testa ai piedi, subito cessò il male e gli tornò la salute"
(I Cel., 66).
Inoltre: "Nell’istesso tempo che S. Francesco dimorava a Narni, una femmina
di detta terra aveva affatto perduta la vista. Il Santo allora la benedisse, e la povera
donna riebbe a un tratto la desiderata luce.
A tali prodigi la devozione del vescovo e del popolo verso il Serafico Patriarca si
accrebbe talmente, che lo pregarono affinché anche nella loro terra avesse presa una
casuccia per sua dimora.
Il Santo allora,
volendo appagare il pio desiderio dei buoni narnesi, si ritirò
nella parte più solitaria della città, ed ivi eresse un
piccolo convento per sé e per i suoi frati.
La fabbrica iniziata dal Poverello di Assisi, rimase in piedi per circa duegento anni,
e pare che sorgesse dove al presente trovasi la chiesa di S. Francesco, bel monumento del
secolo XIV" (N. Cavanna, Umbria francescana, 1910).
***
Doveroso, parlando della "Narni minoritica", sottolineare quanto questa terra
fosse stata feconda di "santità francescane".
Oltre ai cinque Santi Protomartiri francescani, tutti della diocesi narnese (vd. Terni
e i suoi cinque Santi protomartiri francescani), si aggiunge quanto segue: "Nel 1219,
quando Francesco era in procinto di salpare per l’Oriente, il governo della giovane
"fraternitas" minoritica venne affidata, dallo stesso Santo, a frate Girolamo da
Napoli e a frate Matteo da Narni.
In ottemperanza alla volontà dell’Assisiate, Matteo da Narni si stabilì alla
Porziuncola, con l’incarico di risiedervi e ricevere quanti dovevano essere accolti
nell’Ordine" (Giordano da Giano, La Cronaca).
"Molti miracoli fece quisto santo, et molti sengni mostrò Dio per questo suo
fedele servo frate Matheo in vita et in morte per la pura sua obedientia" (G. Oddi,
La Franceschina).
Alla Porziuncola è seppellito il beato Stefano da Narni, uomo di profonda carità,
tanto caro al Poverello di Dio.
E’ lui il frate che fuggì senza obbedienza dalla Porziuncola, per raggiungere il
Santo in Oriente ed avvertirlo delle gravi perturbazioni avvenute in seno all’Ordine
durante l’assenza del fondatore; sembra inoltre che sia quel frate Stefano miracolato
da S. Chiara.
Nel silenzioso Romitorio delle Carceri, in Assisi, nel 1378 morì il beato Valentino da
Narni; fu seppellito nella Basilica di S. Francesco, ove sempre "multis claruit et
claret miraculis" (Bartolomeo da Pisa, De conformitate).
Altro narnese è il beato Matteo De Prosperis, le cui spoglie sono custodite nella
chiesa di N.S. di Lourdes in Narni; la data della sua morte è indicata dall’Hueber:
8 giugno 1374.
Sempre di Narni è il beato Stefano, vissuto nella prima metà del sec. XVI; amico del
beato Giovanni Spagnolo, egli "fu de grande clarità et oratione (...). Iace il corpo
a Sancta Maria de li Angeli con gli altri sancti frati"(G. Oddi, La Franceschina).
Che dire poi delle lucenti figure femminili vissute nel monastero di S. Chiara di
Narni, sulle quali, fra tutte, si eleva la fulgida beata narnese Fermina Cesi (1519-1557)?
TERNI E I SUOI CINQUE SS. PROTOMARTIRI
FRANCESCANI
Testo:
Berardo de’ Leopardi da Calvi
Pietro de’ Bonanti da Sangemini
Ottone de’ Petricchi da Stroncone
Accursio Vacuzio e Adiuto della diocesi di Narni
(Liberamente tratto da P. Rossi, Francescani e Islam, Ed.
I.T.E.A., Arezzo 2001)
I cinque eroici frati (insieme a frate Vitale) entrarono nell'Ordine nel 1213, vestiti
delle "serafiche lane" per mano dello stesso Francesco d'Asissi, il quale, in
quell'anno, invitato dal vescovo di Narni, Ugolino, percorse borghi e castelli dell'intero
territorio ternano.
Narrano le fonti: "Per la famigliarità, e santa conversazione, ch'ebbero li buoni
giovani Berardo, (Ottone, Adiuto, Accursio, Vitale) e Pietro con S. Francesco, e suoi
frati, divennero in breve perfetti religiosi, e meritarono ch'esso santo Patriarca
l'amasse, e l'elegesse ad imprese grandi".
Il 26 maggio del 1219, giorno di Pentecoste, presso la Porziuncola , ebbe inizio il
Capitolo generale dei frati minori.
Alla vigilia del fatidico giorno, le colline intorno ad Assisi e il
"querceto" in cui era immersa la Porziuncola erano tutti un brulicare di tonache
grigie.
E tra quella gioiosa moltitudine, carezzata dai profumi della inoltrata primavera
umbra, erano anche Berardo, Pietro, Adiuto, Accursio, Ottone, Vitale, quei giovani frati
del "ternano" che, lasciata la Provincia toscana, in cui da alcuni anni
operavano, si erano diretti a S. Maria degli Angeli per l'annuale Capitolo.
Probabilmente, giunti nella selva della Porziuncola, avranno riabbracciato quei
fratelli oriundi delle loro stesse terre, fra i quali: frate Simone Camporeali da Terni,
frate Illuminato di Rocca Accarina, frate Pietro Capitoni Cesi dal Poggio, frate Leonardo
delle Terre Arnolfe, frate Matteo e frate Stefano da Narni.
L'indomani, all'alba, ebbe inizio il Capitolo, presieduto dal Cardinale Ugolino dei
Conti de' Segni.
Finite le cerimonie e contemporaneamente alla fase di conoscenza e di incontro tra i
"fratres", si tirarono le somme delle spedizioni ultramontane e ultramarine che
erano state decise nel Capitolo del 1217.
Non tutto era andato liscio. I fratelli "missionari" raccontarono le grandi
difficoltà incontrate.
Però i frutti, seppur sudati, erano stati abbondanti.
Si era narrato anche dei patimenti di alcuni compagni, e, soprattutto, del martirio di
un loro giovane fratello: Eletto, ucciso dai musulmani in Egitto.
La vicenda di frate Eletto aveva infiammato gli ascoltatori, perché, in quei tempi, il
martirio era considerata una grande "avventura".
Subito nell'aria aleggiò il fermento di un esercito nuovo, un esercito che,
consapevole di aver avuto il battesimo del sangue, desideroso di "amorosa
vendetta", si mostrava impaziente di una grande vittoria, una vittoria da ottenere
con la sublime arma del Vangelo.
Nonostante l'appello alla Crociata, lanciato anche da Innocenzo III, Francesco delinea
chiaramente un programma di accostamento del mondo Musulmano, nello spirito del Vangelo,
che viene prescritto nella Regola, detta "Non-bollata".
Era la prima volta che, nella storia della Chiesa, si presentava un metodo di
apostolato nei confronti dei Musulmani, in uno spirito unicamente evangelico; per la prima
volta nella Regola di un Ordine religioso si incontrava un capitolo riservato
all'evangelizzazione dell'Islam (Rnb, 16,42-45).
Nel suo spirito evangelico Francesco sente l'esigenza della carità di portare il
Vangelo a tutti gli uomini.
I Saraceni sono ormai i primi che hanno richiamato le sue preoccupazioni.
Ed il Santo assisiate lancia accorati inviti ai suoi fratelli: "Frati miei tutti,
ascoltiamo ciò che dice il Signore: "Amate i vostri nemici e fate del bene a quelli
che vi odiano". Infatti anche il Signore nostro Gesù Cristo, di cui dobbiamo seguire
le orme, chiamò amico il suo traditore e si offrì spontaneamente ai suoi crocifissori.
Sono dunque nostri amici tutti coloro che ingiustamente ci infliggono tribolazioni e
angustie e ignominie e ingiurie, dolori e sofferenze, martirio e morte, e li dobbiamo
amare molto poiché in virtù di ciò che ci fanno, abbiamo la vita eterna".
Francesco, perfetto uomo apostolico ed evangelico, sull'esempio di Cristo e degli
Apostoli, vuole che anche i suoi frati, andando come "pecorelle in mezzo ai
lupi", portino ovunque la Buona Novella.
Tra l'entusiasmo si decisero, pertanto, le nuove partenze per la Germania, la Francia,
l'Ungheria.
Il Poverello, volendo ritentare la "Via del Marocco", abbandonata qualche
anno prima, consapevole della difficoltà dell'impresa, chiamò sei giovani frati, di cui,
stando alle cronache, aveva già sperimentato "la somma virtù".
Erano essi Berardo da Calvi, Pietro da Sangemini, Ottone da Stroncone, Accursio
Vacuzio, Adiuto e Vitale da Narni.
La vicenda dei cinque arditi frati, è contenuta nel "Martyrium quinque fratrum
Minorum apud Marochium", una dettagliatissima relazione sulla testimonianza cruenta
dei nostri eroi, compilata, a detta dei critici, da un testimone oculare che, pur non
appartenendo all'Ordine, era molto vicino ai suddetti religiosi.
I sei "penitenti", non senza emozione, alzatisi, si avvicinarono al loro
Maestro, il quale, fissandoli negli occhi, disse: "Figli miei diletti, Dio mi ha
ordinato di mandarvi nel paese dei Saraceni per confessarvi e predicarvi la sua fede, e
per combattere la legge di Maometto.
Anch'io andrò tra gli infedeli in un'altra regione, ed invierò altri frati in ogni
parte del mondo.
Preparatevi dunque, figli miei, a compiere la volontà del Signore".
I sei prescelti, nel fervore della singolare elezione, prostrati a terra in segno di
riverenza, risposero di slancio: "Padre, disse frate Vitale per tutti, mandaci dove
vuoi, perché siamo pronti a compiere la tua volontà, ma tu, Padre, aiutaci con le tue
preghiere ad adempiere i tuoi comandi.
Perché noi siamo giovani, e non siamo ancora usciti una volta d'Italia, e quel popolo
ci è sconosciuto, e sappiamo che odia i cristiani, e noi non conosciamo neppure la lingua
di quella gente.
E certo quando ci vedranno vestiti così miseramente e cinti di una fune, ci
disprezzeranno come pazzi e incapaci di parole di vita; ecco perché noi abbiamo tanto
bisogno delle tue preghiere.
Oh padre Dolce, come potremo separarci da te?
In che modo noi, miseri e orfani, potremo compier senza di te la volontà di Dio, se
Egli non ci aiuta con la sua grazia?".
"Andate, figli miei - proseguì Francesco commosso da quella obbedienza -, ponete
in Dio la vostra confidenza: è lui che vi manda, egli vi darà; coraggio (...). Siate
pazienti nelle tribolazioni ed umili nella prosperità: trionferete in ogni combattimento.
Imitate il Cristo nella povertà, nell'obbedienza e nella castità (...). Portate con voi
la Regola ed il breviario, e recitate l'Ufficio in modo perfetto. Ubbidite tutti al vostro
fratello anziano Vitale".
Ad un tratto l'esortazione si interruppe: come una corda allentata, la voce di
Francesco tremò, si abbassò, cambiò tono: l'uomo, con la sua tragica delicatezza,
vinceva il maestro ed il Santo: "Figli miei, benché la vostra buona volontà mi
riempia di gioia, tuttavia il mio cuore non può fare a meno di soffrire per la vostra
partenza, perché vi amo, ma bisogna anteporre gli ordini divini ai nostri desideri. Per
vostro conforto io vi prego di avere sempre dinanzi agli occhi la passione di nostro
Signore. Essa vi animerà e vi fortificherà a soffrire tutto per la sua gloria".
La tristezza di Francesco si comunicò ai giovani partenti come un presentimento di
morte. Subito il Santo prese la rivincita, scuotendo con robusta ala di fede la malìa
dello scoramento: "Figliuoli miei, abbandonatevi in Dio, poiché Egli, che vi manda,
vi darà tutti gli aiuti necessari per compiere la sua volontà".
I sei frati si inginocchiarono, piangendo gli baciarono la mano, gli chiesero la
benedizione.
Qualche cosa singhiozzava e si torceva nelle loro parole: la giovinezza che si
ribellava alla morte.
E S. Francesco, con le lacrime agli occhi, li benedisse.
Così, lasciando alle loro spalle la Porziuncola, incamminandosi in direzione della
Spagna, partirono i sei Crociati del Marocco, con la testa rasa al sole, i piedi scalzi
nel fango e nella polvere, la Regola sul petto e il Crocifisso nel cuore.
Rideva il maggio sulla beata Valle spoletana, e tutta la selva intorno alla Porziuncola
biondeggiava e odorava di ginestre d'oro, ma davanti ai "nostri" frati c'era
solo l'Africa sconosciuta.
Giunti nel Regno di Aragona, caduto malato frate Vitale, proseguirono in cinque.
A Coimbra, accolti "con molta carità" dalla regina Urraca, furono ospitati
nel romitaggio di "Dos Olivais", dove, da alcuni anni (1217), era una comunità
francescana.
E in quei giorni avvenne l'incontro tra i nostri eroi ed il giovane canonico
agostiniano di S. Croce di Coimbra: Ferdinando Martinez da Lisbona (futuro S. Antonio da
Padova!).
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Sant'Antonio e San Francesco
Era consuetudine dei canonici regolari avvicendarsi nell'accogliere i poveri e i
mendicanti che bussavano alla porta della canonica di S. Croce, per avere un po' di pane.
Un giorno, il giovane agostiniano Ferdinando incontrò degli strani personaggi, vestiti
di un saio, ruvido e rattoppato, stretto ai fianchi da un consunto cordiglio.
Se ne stavano in fila con gli altri poveri per avere in elemosina il "pane del
Signore", ma si avvertiva in loro qualcosa di diverso: chiedevano con umiltà, si
accontentavano di tutto e, con un sorriso solare, ringraziavano dicendo: "Il Signore
ti dia Pace!".
Nella loro nullità materiale, emergeva una indefinibile grandezza spirituale.
Quando la curiosità lo spinse a chiedere chi fossero, Ferdinando seppe che provenivano
dall'Italia, abitavano da alcuni giorni su una delle colline che sovrastano la città di
Coimbra, erano seguaci di "quel" Francesco di Assisi, di cui conosceva la
santità.
Ferdinando aveva dunque incontrati i nostri frati alla porta dell'abbazia.
E ne aveva subìto, irreversibilmente, il fascino.
Certamente avrà parlato con loro, avrà "toccato" con il cuore quella
suprema letizia che, come freschissima e dissetante sorgente, scaturiva da quello stupendo
vivere il Vangelo nella sua più assoluta integrità.
Da lì a poco, Ferdinando, "attaccate al chiodo" le bianche e pregiate vesti
agostiniane, indosserà il ruvido e rattoppato saio francescano con il nome di Antonio.
Dopo una breve sosta ad Alamquer, i cinque fraticelli raggiunsero Hispalis (Siviglia),
città tenuta dai Saraceni.
Qui tentarono di predicare nella moschea principale; ma il re ordinò di tagliar loro
la testa, e soltanto perché addolcito dalle preghiere di suo figlio, li fece soltanto
imprigionare.
Dalla cima della torre-prigione, essi continuarono a predicare; quindi il re saraceno
li espulse dalla città e li inviò nel Marocco, insieme a don Pedro Fernando, fratello di
Alfonso II, re del Portogallo.
"I frati (...), entrati nella capitale del Marocco incominciarono immediatamente a
predicare il Vangelo alla gente che stava nella piazza della città.
Ma avendo il sultano risaputa la cosa, ordinò che venissero messi in prigione, dove
restarono per venti giorni senza cibo e bevanda, nutriti solo delle consolazioni divine.
Poi il sovrano li fece convocare dinanzi a sè.
Ma avendoli trovati fermissimi nella professione della fede cattolica, acceso di
sdegno, ordinò che venissero torturati in vari modi e, in luoghi separati, sottoposti a
flagelli.
Allora gli sgherri, legatili mani e piedi e con le funi al collo, cominciarono a
trascinarli per terra, con tanta violenza, che quasi apparivano al di fuori le loro
viscere.
Sulle loro ferite versarono aceto e olio bollente e infine li gettarono sui loro
giacigli ricoperti di frammenti e di rottami, seguitando a tormentarli per tutta la notte.
Dopo di ciò il re del Marocco, pieno di furore, ordinò che venissero ricondotti
davanti a lui.
Incatenati e seminudi furono condotti in presenza del re.
Questi, avendoli trovati ancora saldissimi alla fede, allontanate le altre persone,
fece entrare alcune donne e cominciò a dire: "Frati, convertitevi alla nostra fede,
vi darò queste donne per mogli e molto denaro, e sarete onorati nel mio regno".
Ma i beati martiri risposero: "Non vogliamo né le tue donne, né il tuo denaro,
ma tutto disprezziamo per amore di Cristo".
Allora il sultano montò in furore e, afferrata una scimitarra, separati l'uno
dall'altro i santi frati, spaccò loro la testa, vibrando tre colpi sulla loro fronte; li
uccise di propria mano".
Era il 16 gennaio 1220.
Alcuni cristiani, riusciti a recuperare i corpi martoriati dei cinque eroi, li
consegnarono all'infante di Portogallo don Pedro, il quale "ricevute le sacre
Reliquie, le fece ponere in un vaso d'argento, e con molta riverenza le mandò alla città
di Coimbra in Portogallo, accompagnandole esso per più giornate; & il Signor Iddio
per strada dimostrò molti miracoli".
Le sante reliquie, accolte con profondo giubilo dagli stessi reggenti portoghesi,
giunte a Coimbra, furono poste nel Monastero di S. Croce.
"Nell'istesso giorno (...) cominciorono li Santi a risplendere con miracoli (...).
In questo medesimo giorno il glorioso S. Antonio di Padova, ch'era Canonico in quel
Monastero di S. Croce di Coimbra, vedendo tanti miracoli, e desideroso ancora di patir lui
il martirio per la fede di Christo, se deliberò pigliar l'habito di S. Francesco".
Diverrà S. Antonio da Padova, il grande taumaturgo francescano!
Quando Francesco venne a conoscenza di quell'altissima testimonianza di fede, esclamò:
"Ora posso dire veramente di avere cinque frati".
Eppure, più tardi, mentre ascoltava la lettura delle loro gesta, parendogli che alcuni
uditori traessero motivo di vanità collettiva da quell'eroismo, fece interrompere la
narrazione, dicendo: "Ognuno prenda gloria dal suo proprio martirio, non da quello
degli altri!".
Nel 1481 Sisto IV, con la bolla "Cum alias animo", "havendo presa
diligente informatione della santità della vita, et operationi miracolose, fatte da
questi cinque Santi Martiri, l'Anno 1481, adì 7 d'Agosto li canonizzò publicamente, e li
fece ponere nel Martirologio, e Calendario Romano sotto li sedici di Gennaro, giorno del
loro Martirio, e con le seguenti parole: Marrochij in Affrica, passio Sanctorum Martyrum
Ordinis Minorum Berardi, Petri, Accursij, Adiuti, et Ottonis".