San Francesco a Narni Chiesa e Speco
Sottolinea l’autorevole Paul Sabatier: "Sembra che Francesco abbia avuto per Narni come per i paesi circunvicini una specie di predilezione". Il Santo giullare giunse per la prima volta nell’avito castello di Narni nel 1209-1210, dopo aver incontrato, a Roma, papa Innocenzo III ed aver ottenuto, dallo stesso, l’approvazione "orale" della "Regola". Riferiscono le fonti: "Ebbri di letizia, i "Penitenti di Assisi", congedatisi dal Pontefice, ripresero la via del ritorno. A quei tempi, due erano le vie che da Roma avvicinavano alla lussureggiante Valle spoletana: la "Via Flaminia" e la "Via fluviale". La seconda era rappresentata dai fiumi Tevere e Nera, a ridosso della quale (riva sinistra), scorreva parallelo il "tratturo delle transumanze" che, in poco più di due giorni, dalla Città Eterna, faceva giungere al borgo di Narni. Prerogativa della mite compagnia di frati era quella di predicare non solo nelle piazze delle città, in cui era sempre presente l’autorità ecclesiastica, ma soprattutto nelle campagne, nei centri rurali: gli antichi "pagi", ove erano ancora largamente praticati i riti e le credenze dell’antica religione pagana. La "Via delle transumanze" toccava un gran numero di "pagi"; fu questo il percorso scelto da Francesco ed i suoi "fratres". Da Roma ad Orte a bordo di una "sandala" (tipica imbarcazione fluviale, così denominata per il particolare fondo piatto), quindi, dopo una durevole permanenza (quindici giorni) nei pressi di una cappellina romanica immersa nell’amena campagna ortana (vd. I Cel., 34), il gioioso drappello di Minoriti giunse nel castello di Montoro. Da Montoro, i "Penitenti" di Assisi, incantati dall’orrida bellezza della stretta del Nera, costituita dalle rocce strapiombanti del monte Maggiore da una parte e da quelle del monte Santacroce dall’altra, entrarono nelle viuzze di Narni, non prima, probabilmente, di essersi rifocillati alla mensa benedettina della vetusta abbazia di S. Cassiano. E a Narni, frate Francesco, probabilmente dopo essersi posto sul punto più "in vista" della principale piazza del castello, predicò; narra lo Iacobilli: "Predicando San Francesco nella provincia dell’Umbria con grandissimo spirito, e fervore; e operando molti miracoli, il Beato Stefano nobile narnese havendo un giorno udito predicare, e fare molte penitenze e miracoli; compunto grandemente, e illuminato dallo Spirito Santo, abbandonò quanto haveva, e seguì esso Serafico Padre, ponendosi sotto la sua obedienza; e fu da lui l’anno mille ducento diece vestito del suo habito dell’Ordine Minore; e fu uno de 72, discepoli, e delli primi, dopo li dodici compagni di esso Santo"" (P. Rossi, Francesco d’Assisi e la Valle ternana, 1997). Francesco d’Assisi, tornerà a Narni: nel 1213, invitato dal vescovo Ugolino, dopo un "fruttuosissimo" viaggio apostolico compiuto a Terni, Collescipoli, Stroncone, S. Urbano, Calvi, il Santo assisiate, prima di raggiungere Amelia e Sangemini, pervenne a Narni, accolto con entusiasmo dal vescovo Ugolino (tormentato per il "lievitare", nella sua diocesi, della "filosofia" catara). Era, presumibilmente, il febbraio del 1213. Narrano le cronache: "Nel 1213, la predicazione di S. Francesco a Narni durò vari giorni, e fu accompagnata da due miracoli" (N. Cavanna, Umbria francescana, 1910); riferisce il Celano: "(...) l’uomo di Dio Francesco, recatosi a Narni, vi rimase parecchi giorni. Uno della città, di nome Pietro, stava in letto paralizzato, e da cinque mesi privo dell’uso di tutte la membra, così che non poteva punto alzarsi, e nemmeno muoversi un poco, riuscendo solo - mentre non poteva servirsi né dei piedi, né delle mani, né del capo - a muovere la lingua e aprire gli occhi. Or costui, sentendo che era giunto a Narni san Francesco, fece dire al vescovo della città che in nome della misericordia divina, si degnasse mandargli il servo dell’Altissimo, perchè nutriva fiducia di essere liberato dalla sua infermità per la vista e la presenza del Santo. E veramente avvenne che, come il beato Francesco gli fu presso e tracciò un segno di croce su di lui dalla testa ai piedi, subito cessò il male e gli tornò la salute" (I Cel., 66). Inoltre: "Nell’istesso tempo che S. Francesco dimorava a Narni, una femmina di detta terra aveva affatto perduta la vista. Il Santo allora la benedisse, e la povera donna riebbe a un tratto la desiderata luce. A tali prodigi la devozione del vescovo e del popolo verso il Serafico Patriarca si accrebbe talmente, che lo pregarono affinché anche nella loro terra avesse presa una casuccia per sua dimora. Il Santo allora, volendo appagare il pio desiderio dei buoni narnesi, si ritirò nella parte più solitaria della città, ed ivi eresse un piccolo convento per sé e per i suoi frati. La fabbrica iniziata dal Poverello di Assisi, rimase in piedi per circa duegento anni, e pare che sorgesse dove al presente trovasi la chiesa di S. Francesco, bel monumento del secolo XIV" (N. Cavanna, Umbria francescana, 1910). Doveroso, parlando della "Narni minoritica", sottolineare quanto questa terra fosse stata feconda di "santità francescane". Oltre ai cinque Santi Protomartiri francescani, tutti della diocesi narnese (vd. Terni e i suoi cinque Santi protomartiri francescani), si aggiunge quanto segue: "Nel 1219, quando Francesco era in procinto di salpare per l’Oriente, il governo della giovane "fraternitas" minoritica venne affidata, dallo stesso Santo, a frate Girolamo da Napoli e a frate Matteo da Narni. In ottemperanza alla volontà dell’Assisiate, Matteo da Narni si stabilì alla Porziuncola, con l’incarico di risiedervi e ricevere quanti dovevano essere accolti nell’Ordine" (Giordano da Giano, La Cronaca). "Molti miracoli fece quisto santo, et molti sengni mostrò Dio per questo suo fedele servo frate Matheo in vita et in morte per la pura sua obedientia" (G. Oddi, La Franceschina). Alla Porziuncola è seppellito il beato Stefano da Narni, uomo di profonda carità, tanto caro al Poverello di Dio. E’ lui il frate che fuggì senza obbedienza dalla Porziuncola, per raggiungere il Santo in Oriente ed avvertirlo delle gravi perturbazioni avvenute in seno all’Ordine durante l’assenza del fondatore; sembra inoltre che sia quel frate Stefano miracolato da S. Chiara. Nel silenzioso Romitorio delle Carceri, in Assisi, nel 1378 morì il beato Valentino da Narni; fu seppellito nella Basilica di S. Francesco, ove sempre "multis claruit et claret miraculis" (Bartolomeo da Pisa, De conformitate). Altro narnese è il beato Matteo De Prosperis, le cui spoglie sono custodite nella chiesa di N.S. di Lourdes in Narni; la data della sua morte è indicata dall’Hueber: 8 giugno 1374. Sempre di Narni è il beato Stefano, vissuto nella prima metà del sec. XVI; amico del beato Giovanni Spagnolo, egli "fu de grande clarità et oratione (...). Iace il corpo a Sancta Maria de li Angeli con gli altri sancti frati"(G. Oddi, La Franceschina). Che dire poi delle lucenti figure femminili vissute nel monastero di S. Chiara di Narni, sulle quali, fra tutte, si eleva la fulgida beata narnese Fermina Cesi (1519-1557)?
Storia
dei 5 martiri Francescani
PROTOMARTIRI FRANCESCANI Testo: Berardo de’ Leopardi da Calvi Pietro de’ Bonanti da Sangemini Ottone de’ Petricchi da Stroncone Accursio Vacuzio e Adiuto della diocesi di Narni (Liberamente tratto da P. Rossi, Francescani e Islam, Ed. I.T.E.A., Arezzo 2001) I cinque eroici frati (insieme a frate Vitale) entrarono nell'Ordine nel 1213, vestiti delle "serafiche lane" per mano dello stesso Francesco d'Asissi, il quale, in quell'anno, invitato dal vescovo di Narni, Ugolino, percorse borghi e castelli dell'intero territorio ternano. Narrano le fonti: "Per la famigliarità, e santa conversazione, ch'ebbero li buoni giovani Berardo, (Ottone, Adiuto, Accursio, Vitale) e Pietro con S. Francesco, e suoi frati, divennero in breve perfetti religiosi, e meritarono ch'esso santo Patriarca l'amasse, e l'elegesse ad imprese grandi". Il 26 maggio del 1219, giorno di Pentecoste, presso la Porziuncola , ebbe inizio il Capitolo generale dei frati minori. Alla vigilia del fatidico giorno, le colline intorno ad Assisi e il "querceto" in cui era immersa la Porziuncola erano tutti un brulicare di tonache grigie. E tra quella gioiosa moltitudine, carezzata dai profumi della inoltrata primavera umbra, erano anche Berardo, Pietro, Adiuto, Accursio, Ottone, Vitale, quei giovani frati del "ternano" che, lasciata la Provincia toscana, in cui da alcuni anni operavano, si erano diretti a S. Maria degli Angeli per l'annuale Capitolo. Probabilmente, giunti nella selva della Porziuncola, avranno riabbracciato quei fratelli oriundi delle loro stesse terre, fra i quali: frate Simone Camporeali da Terni, frate Illuminato di Rocca Accarina, frate Pietro Capitoni Cesi dal Poggio, frate Leonardo delle Terre Arnolfe, frate Matteo e frate Stefano da Narni. L'indomani, all'alba, ebbe inizio il Capitolo, presieduto dal Cardinale Ugolino dei Conti de' Segni. Finite le cerimonie e contemporaneamente alla fase di conoscenza e di incontro tra i "fratres", si tirarono le somme delle spedizioni ultramontane e ultramarine che erano state decise nel Capitolo del 1217. Non tutto era andato liscio. I fratelli "missionari" raccontarono le grandi difficoltà incontrate. Però i frutti, seppur sudati, erano stati abbondanti. Si era narrato anche dei patimenti di alcuni compagni, e, soprattutto, del martirio di un loro giovane fratello: Eletto, ucciso dai musulmani in Egitto. La vicenda di frate Eletto aveva infiammato gli ascoltatori, perché, in quei tempi, il martirio era considerata una grande "avventura". Subito nell'aria aleggiò il fermento di un esercito nuovo, un esercito che, consapevole di aver avuto il battesimo del sangue, desideroso di "amorosa vendetta", si mostrava impaziente di una grande vittoria, una vittoria da ottenere con la sublime arma del Vangelo. Nonostante l'appello alla Crociata, lanciato anche da Innocenzo III, Francesco delinea chiaramente un programma di accostamento del mondo Musulmano, nello spirito del Vangelo, che viene prescritto nella Regola, detta "Non-bollata". Era la prima volta che, nella storia della Chiesa, si presentava un metodo di apostolato nei confronti dei Musulmani, in uno spirito unicamente evangelico; per la prima volta nella Regola di un Ordine religioso si incontrava un capitolo riservato all'evangelizzazione dell'Islam (Rnb, 16,42-45). Nel suo spirito evangelico Francesco sente l'esigenza della carità di portare il Vangelo a tutti gli uomini. I Saraceni sono ormai i primi che hanno richiamato le sue preoccupazioni. Ed il Santo assisiate lancia accorati inviti ai suoi fratelli: "Frati miei tutti, ascoltiamo ciò che dice il Signore: "Amate i vostri nemici e fate del bene a quelli che vi odiano". Infatti anche il Signore nostro Gesù Cristo, di cui dobbiamo seguire le orme, chiamò amico il suo traditore e si offrì spontaneamente ai suoi crocifissori. Sono dunque nostri amici tutti coloro che ingiustamente ci infliggono tribolazioni e angustie e ignominie e ingiurie, dolori e sofferenze, martirio e morte, e li dobbiamo amare molto poiché in virtù di ciò che ci fanno, abbiamo la vita eterna". Francesco, perfetto uomo apostolico ed evangelico, sull'esempio di Cristo e degli Apostoli, vuole che anche i suoi frati, andando come "pecorelle in mezzo ai lupi", portino ovunque la Buona Novella. Tra l'entusiasmo si decisero, pertanto, le nuove partenze per la Germania, la Francia, l'Ungheria. Il Poverello, volendo ritentare la "Via del Marocco", abbandonata qualche anno prima, consapevole della difficoltà dell'impresa, chiamò sei giovani frati, di cui, stando alle cronache, aveva già sperimentato "la somma virtù". Erano essi Berardo da Calvi, Pietro da Sangemini, Ottone da Stroncone, Accursio Vacuzio, Adiuto e Vitale da Narni. La vicenda dei cinque arditi frati, è contenuta nel "Martyrium quinque fratrum Minorum apud Marochium", una dettagliatissima relazione sulla testimonianza cruenta dei nostri eroi, compilata, a detta dei critici, da un testimone oculare che, pur non appartenendo all'Ordine, era molto vicino ai suddetti religiosi. I sei "penitenti", non senza emozione, alzatisi, si avvicinarono al loro Maestro, il quale, fissandoli negli occhi, disse: "Figli miei diletti, Dio mi ha ordinato di mandarvi nel paese dei Saraceni per confessarvi e predicarvi la sua fede, e per combattere la legge di Maometto. Anch'io andrò tra gli infedeli in un'altra regione, ed invierò altri frati in ogni parte del mondo. Preparatevi dunque, figli miei, a compiere la volontà del Signore". I sei prescelti, nel fervore della singolare elezione, prostrati a terra in segno di riverenza, risposero di slancio: "Padre, disse frate Vitale per tutti, mandaci dove vuoi, perché siamo pronti a compiere la tua volontà, ma tu, Padre, aiutaci con le tue preghiere ad adempiere i tuoi comandi. Perché noi siamo giovani, e non siamo ancora usciti una volta d'Italia, e quel popolo ci è sconosciuto, e sappiamo che odia i cristiani, e noi non conosciamo neppure la lingua di quella gente. E certo quando ci vedranno vestiti così miseramente e cinti di una fune, ci disprezzeranno come pazzi e incapaci di parole di vita; ecco perché noi abbiamo tanto bisogno delle tue preghiere. Oh padre Dolce, come potremo separarci da te? In che modo noi, miseri e orfani, potremo compier senza di te la volontà di Dio, se Egli non ci aiuta con la sua grazia?". "Andate, figli miei - proseguì Francesco commosso da quella obbedienza -, ponete in Dio la vostra confidenza: è lui che vi manda, egli vi darà; coraggio (...). Siate pazienti nelle tribolazioni ed umili nella prosperità: trionferete in ogni combattimento. Imitate il Cristo nella povertà, nell'obbedienza e nella castità (...). Portate con voi la Regola ed il breviario, e recitate l'Ufficio in modo perfetto. Ubbidite tutti al vostro fratello anziano Vitale". Ad un tratto l'esortazione si interruppe: come una corda allentata, la voce di Francesco tremò, si abbassò, cambiò tono: l'uomo, con la sua tragica delicatezza, vinceva il maestro ed il Santo: "Figli miei, benché la vostra buona volontà mi riempia di gioia, tuttavia il mio cuore non può fare a meno di soffrire per la vostra partenza, perché vi amo, ma bisogna anteporre gli ordini divini ai nostri desideri. Per vostro conforto io vi prego di avere sempre dinanzi agli occhi la passione di nostro Signore. Essa vi animerà e vi fortificherà a soffrire tutto per la sua gloria". La tristezza di Francesco si comunicò ai giovani partenti come un presentimento di morte. Subito il Santo prese la rivincita, scuotendo con robusta ala di fede la malìa dello scoramento: "Figliuoli miei, abbandonatevi in Dio, poiché Egli, che vi manda, vi darà tutti gli aiuti necessari per compiere la sua volontà". I sei frati si inginocchiarono, piangendo gli baciarono la mano, gli chiesero la benedizione. Qualche cosa singhiozzava e si torceva nelle loro parole: la giovinezza che si ribellava alla morte. E S. Francesco, con le lacrime agli occhi, li benedisse. Così, lasciando alle loro spalle la Porziuncola, incamminandosi in direzione della Spagna, partirono i sei Crociati del Marocco, con la testa rasa al sole, i piedi scalzi nel fango e nella polvere, la Regola sul petto e il Crocifisso nel cuore. Rideva il maggio sulla beata Valle spoletana, e tutta la selva intorno alla Porziuncola biondeggiava e odorava di ginestre d'oro, ma davanti ai "nostri" frati c'era solo l'Africa sconosciuta. Giunti nel Regno di Aragona, caduto malato frate Vitale, proseguirono in cinque. A Coimbra, accolti "con molta carità" dalla regina Urraca, furono ospitati nel romitaggio di "Dos Olivais", dove, da alcuni anni (1217), era una comunità francescana. E in quei giorni avvenne l'incontro tra i nostri eroi ed il giovane canonico agostiniano di S. Croce di Coimbra: Ferdinando Martinez da Lisbona (futuro S. Antonio da Padova!). Era consuetudine dei canonici regolari avvicendarsi nell'accogliere i poveri e i mendicanti che bussavano alla porta della canonica di S. Croce, per avere un po' di pane. Un giorno, il giovane agostiniano Ferdinando incontrò degli strani personaggi, vestiti di un saio, ruvido e rattoppato, stretto ai fianchi da un consunto cordiglio. Se ne stavano in fila con gli altri poveri per avere in elemosina il "pane del Signore", ma si avvertiva in loro qualcosa di diverso: chiedevano con umiltà, si accontentavano di tutto e, con un sorriso solare, ringraziavano dicendo: "Il Signore ti dia Pace!". Nella loro nullità materiale, emergeva una indefinibile grandezza spirituale. Quando la curiosità lo spinse a chiedere chi fossero, Ferdinando seppe che provenivano dall'Italia, abitavano da alcuni giorni su una delle colline che sovrastano la città di Coimbra, erano seguaci di "quel" Francesco di Assisi, di cui conosceva la santità. Ferdinando aveva dunque incontrati i nostri frati alla porta dell'abbazia. E ne aveva subìto, irreversibilmente, il fascino. Certamente avrà parlato con loro, avrà "toccato" con il cuore quella suprema letizia che, come freschissima e dissetante sorgente, scaturiva da quello stupendo vivere il Vangelo nella sua più assoluta integrità. Da lì a poco, Ferdinando, "attaccate al chiodo" le bianche e pregiate vesti agostiniane, indosserà il ruvido e rattoppato saio francescano con il nome di Antonio. Dopo una breve sosta ad Alamquer, i cinque fraticelli raggiunsero Hispalis (Siviglia), città tenuta dai Saraceni. Qui tentarono di predicare nella moschea principale; ma il re ordinò di tagliar loro la testa, e soltanto perché addolcito dalle preghiere di suo figlio, li fece soltanto imprigionare. Dalla cima della torre-prigione, essi continuarono a predicare; quindi il re saraceno li espulse dalla città e li inviò nel Marocco, insieme a don Pedro Fernando, fratello di Alfonso II, re del Portogallo. "I frati (...), entrati nella capitale del Marocco incominciarono immediatamente a predicare il Vangelo alla gente che stava nella piazza della città. Ma avendo il sultano risaputa la cosa, ordinò che venissero messi in prigione, dove restarono per venti giorni senza cibo e bevanda, nutriti solo delle consolazioni divine. Poi il sovrano li fece convocare dinanzi a sè. Ma avendoli trovati fermissimi nella professione della fede cattolica, acceso di sdegno, ordinò che venissero torturati in vari modi e, in luoghi separati, sottoposti a flagelli. Allora gli sgherri, legatili mani e piedi e con le funi al collo, cominciarono a trascinarli per terra, con tanta violenza, che quasi apparivano al di fuori le loro viscere. Sulle loro ferite versarono aceto e olio bollente e infine li gettarono sui loro giacigli ricoperti di frammenti e di rottami, seguitando a tormentarli per tutta la notte. Dopo di ciò il re del Marocco, pieno di furore, ordinò che venissero ricondotti davanti a lui. Incatenati e seminudi furono condotti in presenza del re. Questi, avendoli trovati ancora saldissimi alla fede, allontanate le altre persone, fece entrare alcune donne e cominciò a dire: "Frati, convertitevi alla nostra fede, vi darò queste donne per mogli e molto denaro, e sarete onorati nel mio regno". Ma i beati martiri risposero: "Non vogliamo né le tue donne, né il tuo denaro, ma tutto disprezziamo per amore di Cristo". Allora il sultano montò in furore e, afferrata una scimitarra, separati l'uno dall'altro i santi frati, spaccò loro la testa, vibrando tre colpi sulla loro fronte; li uccise di propria mano". Era il 16 gennaio 1220. Alcuni cristiani, riusciti a recuperare i corpi martoriati dei cinque eroi, li consegnarono all'infante di Portogallo don Pedro, il quale "ricevute le sacre Reliquie, le fece ponere in un vaso d'argento, e con molta riverenza le mandò alla città di Coimbra in Portogallo, accompagnandole esso per più giornate; & il Signor Iddio per strada dimostrò molti miracoli". Le sante reliquie, accolte con profondo giubilo dagli stessi reggenti portoghesi, giunte a Coimbra, furono poste nel Monastero di S. Croce. "Nell'istesso giorno (...) cominciorono li Santi a risplendere con miracoli (...). In questo medesimo giorno il glorioso S. Antonio di Padova, ch'era Canonico in quel Monastero di S. Croce di Coimbra, vedendo tanti miracoli, e desideroso ancora di patir lui il martirio per la fede di Christo, se deliberò pigliar l'habito di S. Francesco". Diverrà S. Antonio da Padova, il grande taumaturgo francescano! Quando Francesco venne a conoscenza di quell'altissima testimonianza di fede, esclamò: "Ora posso dire veramente di avere cinque frati". Eppure, più tardi, mentre ascoltava la lettura delle loro gesta, parendogli che alcuni uditori traessero motivo di vanità collettiva da quell'eroismo, fece interrompere la narrazione, dicendo: "Ognuno prenda gloria dal suo proprio martirio, non da quello degli altri!". Nel 1481 Sisto IV, con la bolla "Cum alias animo", "havendo presa diligente informatione della santità della vita, et operationi miracolose, fatte da questi cinque Santi Martiri, l'Anno 1481, adì 7 d'Agosto li canonizzò publicamente, e li fece ponere nel Martirologio, e Calendario Romano sotto li sedici di Gennaro, giorno del loro Martirio, e con le seguenti parole: Marrochij in Affrica, passio Sanctorum Martyrum Ordinis Minorum Berardi, Petri, Accursij, Adiuti, et Ottonis".
Chiesa di San Francesco a Narni
Chiesa di S. Francesco d'Assisi in Narni La chiesa di S. Francesco in Narni, edificata nel luogo in cui l’Assisiate stabilì il primo "locus" minoritico, è un grande edificio a tre navate, caratterizzato da una duplice sequenza di pilastri cilindrici, che sostengono degli archi. La navata centrale, coperta da tetto a capriate, termina con un grande arco poligonale. Fu costruita sin dalle origini per le esigenze di una grande comunità minoritica Conventuale e di un vasto auditorio di fedeli. Numerose cappelle - edificate tra il sec. XIV e il sec. XV - moltiplicano lo spazio interno del sacro ambiente. La facciata dell’edificio, di ascendenza romanica nell’arco a tutto sesto e nell’uso di elementi stondati negli strombi, mostra la sua fattura trecentesca negli spigoli vivi degli stipiti e dell’archivolto. Sopra il portale era un rosone e due finestre arcuate disposte ai lati; a sostituire il rosone è oggi un finestrone quadrangolare non inerente al periodo. Tra il portale ed il finestrone è una nicchia sormontata da un baldacchino sostenuto da due colonne di forma diversa; nella nicchia è dipinta la Madonna di Loreto. Alla chiesa era annesso un Convento, le cui strutture trecentesche esistono ancora sotto il vasto rimaneggiamento ottocentesco. L’interno della sacra aula chiesastica mostra un austero abside semicircolare con volte a crociera, la cui costruzione risale agli anni 1324-1337. Interessanti sono gli affreschi votivi osservabili sui pilastri, attribuibili ai secc. XV-XVI: - Annunciazione: l’angelo annunziante genuflesso contro una tenda, sorreggendo un cartiglio ed atteggiando la mano destra in gesto di "parola", si rivolge alla Vergine assisa su una cattedra, intenta alla lettura; dalle nubi sporge la mano dell’Eterno. - Crocifissione: Cristo crocifisso tra due Santi, uno dei quali regge un cartiglio. - Madonna col Bambino: Madonna in trono col Bambino e un donatore inginocchiato presso il trono. - Figure di Santi: sovrapposti in tre strati; visibile un dragone accucciato. - Disegni con studi preparatori di affreschi. - S. Tommaso: raffigurato con il cartiglio recante il suo nome e la mano destra sollevata in atto di toccare il costato. - S. Pietro: raffigurato con le chiavi e un libro. - Madonna col Bambino e Santi: S. Francesco e S. Antonio Abate (?) - Al di sopra, un frammentario tardo affresco. - Madonna col Bambino e Santi: S. Francesco e S. Antonio Abate. - S. Francesco: reca, nella mano destra, la croce di fondatore di un Ordine religioso e nella sinistra il testo della Regola francescana; in ginocchio è il committente dell’affresco. - Tre Santi, di cui uno martire (S. Stefano). - S. Rocco: in abito di viandante con il cane. - Due Santi: S. Antonio Abate e S. Martire. - Madonna col Bambino tra Santi: la Madonna regge il Bambino che si aggrappa alla scollatura tra un Santo Vescovo (S. Agostino?), e un S. Monaco (S. Antonio Abate?). - Santissima Trinità tra Santi: l’Eterno in sembianze di Cristo, regge il Cristo crocifisso, al di sopra del quale è la colomba dello Spirito Santo, tra S. Andrea con croce e pesci, ed un Santo domenicano con libro (Domenico o Tommaso d’Aquino?).
La sacrestia, ingentilita da un ciclo di affreschi di Alessandro Torresani, a detta del Guardabassi, era "completamente istoriata nel volto e nelle pareti, ma furono questi affreschi ricoperti di bianco; mercè alcuni saggi mirasi sulla parete sinistra: all’ingresso nella I° istoria
- L’Epifania e dietro a piccole figure - La fuga in Egitto. II° istoria - La discesa della manna. Parete di fronte, lateralmente: San Pietro e San Paolo. Parete d'ingresso: - Il presepe; opera della scuola degli Zuccheri" (M. Guardabassi, Monumenti Pagani e Cristiani dell’Umbria, 1872).
Di grande interesse è la Cappella Eroli, affrescata dopo il 1461 da Pierantonio Mezastris, su commissione dello stesso Berardo Eroli; in essa sono raffigurati:
- S. Bernardino ed il Miracolo della donna risanata;
- L’ Incontro tra S. Bernardino e Celestino V;
- S. Francesco che caccia i demoni dalla città di Arezzo;
- Il Sogno di Innocenzo III.
San Francesco, insieme ad alcuni compagni, sottopone al pontefice, per la seconda volta, la sua regola per l'approvazione
San Francesco sulla via delle Indie incontra San Domenico Gusman, fondatore dei domenicani
San Francesco compie alcuni miracoli a Narni (I)
San Francesco nella natura a Narni
Pregiatissima è la tela di Antonio da Ghirardi raffigurante la Natività della Vergine.
Santuario dello Speco di S. Urbano Nel 1213, l'Apostolo umbro giungeva allo Speco di S.Urbano, mirifico gioiello minoritico, magnificamente inserito, come un nido d'aquile, "tra le insenature della giogaia di monti aspri, che van da Narni alla Sabina" (G. Mancini, Lo Speco di Narni, 1959). Veniva da Stroncone, a piedi, con pochi compagni, dopo una delle sue prime peregrinazioni apostoliche nell'Umbria meridionale. Il giovane assisiate, desideroso di solitudine, raggiunse così l'anelata asprezza del monte S. Pancrazio, "e vi trovò una cappella solitaria, presso la quale fece alcun tempo dimora, ospitando in un orrida grotta, forse soggiorno di animali feroci o di ladroni; poi vi tornò a più riprese e vi lasciò alcuni suoi frati, i quali fabbricarono alcune cellette e capanne per loro abitazioni" (B. Bazzocchini, Cronaca, 1921). Nel silenzio recondito della fitta boscaglia, il Poverello di Dio, oltre al benedettino oratorio intitolato a S. Silvestro, trovò una cisterna d'acqua, più tardi detta "Pozzo di S. Francesco", e varie grotte aperte sotto la scogliera del monte. Qui l'Assisiate "aveva trovato il luogo solitario, propizio, alle lacrime, e lo scelse per sé, per abbandonarvisi in paradisiaca devozione" (F. Gonzaga, De origine, 1587). Riporta il Gonzaga: "Tra i luoghi più cari, (Francesco) ebbe familiarissimo Lo Speco, dove per lungo tempo dimorò". Quassù l'Apostolo umbro operò molti prodigi, ad iniziare da quello restato senza dubbio il più famoso, tanto che Bartolomeo da Pisa, nelle sue "Conformità", appellerà il luogo "La nuova Cana": "Nel tempo in cui, presso l'Eremo di Sant'Urbano, era afflitto da gravissima malattia, San Francesco chiese con languida voce del vino, ma gli fu risposto che non c'era da dargliene. Volle allora che gli portassero dell'acqua, e quando gli fu portata la benedisse con segno di croce. Subito quell'elemento, cambiando specie, perdette il proprio sapore e ne acquistò un altro. Divenne ottimo vino ciò che era l'acqua pura, e quanto non poté la povertà, la offerse la santità. Gustatone, l'uomo di Dio risanò con tanta prontezza, che se della meravigliosa guarigione fu causa quel cambiamento, del cambiamento stesso fu testimone la mirabile guarigione" (Cel. Tratt. Mir., 17). "Ma la tradizione più caratteristica dello Speco, quella che ha reso quasi popolare il suo nome, è la tradizione dell'Angelo disceso dal cielo a rallegrare di celesti melodie la solitudine del Serafico Patriarca. Si trovava egli un giorno su questo monte, più dell'ordinario ammalato ed angustiato: le sofferenze corporali e la solitudine empivano il suo cuore d'amarezza, onde egli pregò fervorosamente per ottenere conforto. Ed ecco un Angelo farsi innanzi alla sua grotta e trar fuori da una viola sì celesti melodie, che il Santo ebbe quasi venir meno di dolcezza. Uno scoglio a forma di guglia, che s'innalza sul davanti della grotta, è indicato come il luogo dove si sarebbe posato il celeste consolatore" (B. Bazzocchini, cit.). Raccolto in mistica solitudine, frate Francesco, in quella sua prima visita, permase diverse settimane nel recondito Romitaggio montano di Narni, adoperandosi in estatiche penitenze ed orazioni, confortato dalla benevolenza del suo encomiabile confidente frate Leone, e dall'entusiasmo di quanti, in quei giorni, lasciato il "secolo", salirono l'erta del monte La Bandita, per lievitare la già cospicua schiera minoritica. Non conosciamo i nomi dei nuovi adepti, sappiamo però che l'Assisiate volle si fosse lì edificato un umilissimo "locus", per accoglierli e sì difenderli dagli avversi agenti di quel rigido inverno (non è da escludere le presenze di alcuni dei futuri Santi protomartiri in Marocco). Francesco d'Assisi, tonificato dalla mirifica solitudine dello Speco, decise di proseguire il proprio viaggio apostolico e, abbracciati i nuovi arditi fraticelli, salutò quel luogo di letizia con la ferma promessa di tornarvi, lasciando come pegno il suo bastone viatico. Narra Gelindo Ceroni: "Giunto sul monte, ove s'interna/ cupa e vasta una caverna,/ disse il Santo Poverello:/ -Io desidero che tu, / mio fidato bastoncello, /che aiutasti il pellegrino/ ne le angustie del cammino/ a ripire fin quassù, / abbia vita. E così fu" (G. Ceroni, Lo Speco di frate Francesco, 1929). Così il secco bastoncello che frate Francesco piantò non lontano dalla amata spelonca, si riempì presto di germogli; e ancor oggi, maestoso di rami e di secoli, ricco di nuovi polloni sviluppatisi intorno all'originario ceppo, il "Castagno di S. Francesco" produce gustosissimi frutti, sperimentati efficacissimi "per ogni sorte di malattie, gustandone con fede" (G. Ceroni, cit.). Lo Speco di Sant'Urbano diverrà uno dei Santuari più famosi della storia francescana ed ininterrottamente ospiterà frati esemplari; frate Antonio da Orvieto, nella settecentesca Cronaca, annoterà: "(...) è tutto un reliquiario famoso, abitato da tanti buoni e santi servi di Dio". "Con quello di S. Francesco è legato su questo monte il nome di S. Antonio da Padova e quello di S. Bernardino. Non sappiamo precisamente in quali circostanze siasi trovato lassù S. Antonio, sebbene egli abbia visitato parecchi luoghi dell'Umbria; ma si attribuisce generalmente a S. Bernardino la costruzione del convento, presso il quale non tardarono ad occorrere parecchi fra i più fervorosi seguaci della prima riforma francescana. E' da ricordare tra questi il B. Pietro da Rieti morto quassù in concetto di santità e seppellito nell'antica cappella di S. Silvestro" (B. Bazzochini, cit.). Nel 1523, lo Speco di S.Urbano fu uno dei primissimi luoghi passati ai "Riformati". "Nei primi due secoli della Riforma e fino all'epoca delle soppressioni, la famiglia dello Speco fu abbastanza numerosa e una delle più esemplari della Provincia" (B. Bazzochini, cit.). Paul Sabatier, accennando a questo Eremitorio, a quello di Monteluco e a qualche altro, dirà: "(...) sont les types les plus pittoresque et les plus significatifs que je connaisse de ces sortes de maisons". E l'autorevole Ignacio Larrañaga declamerà: "(...) Tutti i romitori offrono panorami che fanno palpitare il cuore, però questo di Sant'Urbano ne offre uno che supera ogni immaginazione".
IL CONVENTO INFERIORE Il Convento consta di edifici informi, tutti ispirati alla più stretta povertà "che armonicamente traspare da tutte le sue parti" (L. Lanzi, Escursioni, 1907). Il chiostro del sacro Romitaggio, piccolo, rustico, leggermente sghembo, ha come cornice archi bassi e asimmetrici, colmi di variopinti fiori; in un lato è il pozzo con la carrucola ed i ferri sormontati da una croce; su una torretta una antica meridiana riporta l'osservatore a tempi remoti. Dal chiostro, una minuta porta adduce al quattrocentesco "Refettorio di S. Bernardino", ambiente lungo e stretto, caratterizzato da una tavola di quercia massiccia e panca a dossale "intorno alla quale si riuniva a mensa la famigliola religiosa ai tempi del Santo" (B. Bazzocchini, cit.); addossati alla parete sono l'acquaio di pietra ed un fornello per la cottura dei cibi. Poco distante è la cappellina di S. Silvestro, pregiato ambiente preesistente alla venuta del Santo; dietro all'altare monolite, sull'absidina, si ammira un trecentesco affresco di buona fattura, esso rappresenta: Gesù crocifisso con ai lati la Madonna e S. Giovanni Evangelista, S. Francesco e S. Silvestro. Nell'intradosso dell'arco sono raffigurati: l'Annunziata, S. Chiara, S. Girolamo e S. Caterina d'Alessandria. Poco appresso, nella penombra di un andito angusto, ferma la nostra attenzione la bocca di un pozzo: è il pozzo di "S. Francesco", individuato da quattro blocchi irregolari di pietra consunta, ove fu attinta l'acqua che il Serafico sofferente mutò in vino. La candida chiesetta, frutto degli ampliamenti che il Romitaggio subì nel sec. XVI, è un modestissimo edificio a capanna, la cui facciata, traforata da un "occhio" disadorno, vede una porticina sulla cui lunetta risaltano le sfocate immagini della Madonna con il Bambino e i SS. Francesco e Chiara. L'interno, piccolo e semplice, ad una navata, con due altari, uno dei quali è dedicato a S. Pasquale Baylon, protettore dei pastori e delle greggi. L'altare maggiore è ingentilito da un quattrocentesco Crocifisso ligneo, posto contro un fondo di paesaggio con le figure della Vergine e di S. Giovanni e da un settecentesco tabernacolo pentagono a colonnine tortili e nicchiette laterali accoglienti le figurine di S. Francesco e di S. Chiara. Dal grazioso coretto, un'angusta porticina immette in un oratorio, sul cui altare campeggia una tela del '600 raffigurante la Vergine Maria con in braccio Gesù. Nel muro dell'oratorio, una memoria ricorda che "questa cappella il mese di febbraio 1678 era dispensa, quale fu convertita in questa forma a causa del miracolo operato qui dalla Divina Provvidenza, mentre, ritrovandosi in tal tempo i poveri religiosi privi affatto d'olio, ne fu quivi ritrovata una brocca piena, creduta provvisione certa della Divina Provvidenza, mandata per mano angelica; per mezzo del quale (olio) ha operato Dio molti miracoli a pro e beneficio de' fedeli divoti!" (Antonio da Orvieto, Cronologia, 1717). Un viale immerso nel verde dei lecci e dei carpini, scandito da quattordici croci e mal lastricato a gradoni schistosi (percorso, nel 1704, da una processione di Angeli), adduce al ripiano superiore del monte ove, pressoché inalterato, si conserva il Santuario dello Speco: una chiesuola, una celletta ed una colonna sormontata da una croce; la leggenda francescana che è legata a ciascuno di questi edifici, è di un sapore veramente serafico. IL SANTUARIO SUPERIORE Chiesuola La chiesuola, del sec. XIII, a travicelli scoperti, con un altarino sorretto da rozzi pilastrini, è illuminata da una finestrella a feritoia nell'abside. Sulle pareti laterali due affreschi, restaurati ma molto manomessi, narrano l'Episodio miracoloso dell'acqua mutata in vino. Da quando poté levarsi dal giaciglio, stare in preghiera in questa chiesuola fu, per Francesco, l'occupazione e il riposo dei suoi giorni di convalescenza; qui il Santo assisiate, dinanzi al piccolo altare, viveva coi frati la vita con Dio, recitava le Ore e si alzava a Mattutino, conversava col suo Signore, cercando il regno di Dio e la sua giustizia. Celletta Per una piccola, antichissima porta, dai cardini di legno, si entra - abbassando la testa - nella celletta che i frati prepararono all'infermo Francesco: angusta, impressionante, dalle pietre sconnesse, dal tetto nudo a capanna. Al centro è una croce rustica. In fondo, un minuscolo pertugio per salutare "frate Sole". Lungo la parete, protetto da una graticciata di ferro, è il lettaccio dove il Santo giacque malato. E' di castagno: barella di assi legati l'un l'altro da chiodi di legno. Rara, commovente eccezione, questo letto, poiché, in genere, la terra, la roccia gli servivano per riposare. Qui la premura affettuosa dei frati finì per averla vinta sulla sua penitenza. E rimane segno e testimonianza della "gravissima infermità che qui lo sopraffece" (I Cel., 61; Leg. Mag. V, 10). Ancora affissa al muro dell'oratorio, una "Memoria" manoscritta tramanda quella che, dopo l'infermità, fu la gioia più grande di Francesco allo Speco: preoccupato per il futuro della sua "fraternitas", venne assicurato dal Signore con immense promesse: per lui, per i sui frati, per i benefattori. La promessa più esaltante fu l'assicurazione che la sua fraternità sarebbe "durata sempre, sino alla fine del mondo" (Bartolomeo da Pisa, De Conformitate, 1380; Wadding, Annales, 1648). Colonna Dinanzi alla celluzza e all'oratorio, quasi come materno guardiano, è una colonna di roccia sormontata da una croce. Quando il Santo, gettato sul lettaccio, lancinato sin nell'anima dalla sofferenza, desiderò, come un fanciullo, un po' di conforto spirituale, l'angelo violinista si posò sull'alto del masso e con le celesti armonie lenì i tormenti del poeta serafico. Splendida cornice del Santuario è rappresentata, oltre che dall'orrida Spelonca e dal poderoso castagno del Santo, da due devote cappelline, nelle quali è fama che vi abbiano dimorato S. Antonio da Padova e S. Bernardino da Siena.
*** Racconti dallo speco
"La più recente storia dello Speco è contristata da un luttuoso avvenimento. Il giorno 10 agosto 1890, mentre alcuni religiosi si trovavano assenti per esercizio del sacro ministero, i tre rimasti in convento vennero barbaramente uccisi nel refettorio, al tempo del pranzo, da volgari assassini. Malgrado ciò, i nostri religiosi non abbandonarono il venerando santuario; e fu solo nelle ultime vicende della Provincia che il convento restò deserto dei suoi antichi abitatori. Lo Speco fu soppresso nel 1866 e prontamente riscattato: giova sperare che l'attuale abbandono non sia definitivo" (B. Bazzocchini, cit.). "Nel 1943, durante la guerra, padre Placido partì solo da San Damiano con in tasca il denaro per il biglietto e basta. Quando arrivò all'eremo non c'erano né finestre, né mobili. Le piante erano entrate nelle camere e la gente si era servita di tutto il mobilio. Lavorò delle settimane, mangiando pane e insalata. Un giorno, stanco di tutto, partì. Voleva tornare a San Damiano. Sotto la roccia si fermò un'ultima volta a guardare questo povero speco. Allora un dolore lo prese; non poteva lasciarlo e ritornò. Poi padre Ambrogio venne ad aiutarlo. La sera stanchi dicevano il breviario alla luce del fuoco e... si addormentavano, l'uno di qua l'altro di là" (M. Sticco). Da allora, grazie all'amoroso lavoro dei due arditi "fratres" di Francesco, il sacro Cenobio dello Speco è tornato a nuovo splendore!
Chi me ne parlò per la prima volta fu un francescano svizzero di forme atletiche, padre Eugenio, un granatiere in saio, che incontrai a Zug nel 1954. "Come! - esclamò scandalizzato - Non conoscete lo speco di Narni?". Confessai la mia ignoranza. Negli studi francescani, e nella valorizzazione dei luoghi francescani, sono sempre gli stranieri a precederci. Padre Eugenio mi raccontò in un italiano "sui generis", ma tanto espressivo che sarebbe peccato correggerlo: "Quando preparai il mio grande viaggio in Umbria, lessi in un libro di Eduard Schneider la descrizione dello speco. L’eremo era ancora diroccato e disabitato, quando lo Schneider ci fu. Poi a Monteluco padre Gabriele mi disse che due frati ci stavano di nuovo e mi dette le indicazioni per arrivarci. Un autobus andava da Terni a Configni, ma non ogni giorno. Arrivai a Terni il 3 giugno 1948. In convento, a desinare, la Provvidenza mi fece trovare padre Ambrogio dello Speco. Alle tre doveva partire l’autobus. Ci demmo appuntamento alle tre meno un quarto alla porta del convento. Ma perdemmo la corsa. Decidemmo: prendiamo la strada a piedi. Faremo autostop. Camminavamo, camminavamo... Venivano macchine, ma tutte all’incontro, nessuna da dietro. Dovemmo fare una ventina di chilometri a piedi, ma per me più del doppio. Ero ancora debole di una lunga malattia, portavo un grande zaino sulle spalle, ma una gioia ancora più grande nel cuore. Questa sola mi faceva camminare. La notte veniva. Ci perdemmo all’ultimo tratto, per una scorciatoia, padre Ambrogio dovette tirarmi a due mani, a traverso le rocce. Dopo le nove arrivammo al convento. Era tutto buio per un guasto alla linea elettrica. Padre Placido ci ricevette con una candela in mano, ma con un fuoco molto più grande nel suo cuore fraterno. Poi nel piccolo refettorio mangiammo delle lenticchie e dell’insalata. E lì, alla luce della candela, ho incontrato con immensa tenerezza, madonna Povertà. Posso dire che lì mi ha ferito il cuore. E ho capito che era stato san Francesco a farci perdere tutte le macchine". Queste e le altre cose raccontate da padre Eugenio mi rimasero come un pungolo nella memoria, senza riuscire a farmi prendere l’iniziativa di una visita a sant’Urbano, finché, lo scorso giugno, un’amica coraggiosa mi rimorchiò. "Senti", disse, "se vuoi vedere un "luogo" francescano che conservi l’intatto aspetto primitivo, senza chiese bene architettate sopra, senza bancarelle e negozietti intorno, senz’alberghi e pensioni nelle vicinanze, senza nemmeno una forestieria moderna che lo addomestichi, vieni con me all’eremo di sant’Urbano, vicino a Narni". San Francesco, non so se per cavalleria o per compassione della nostra magra virtù, ci risparmiò il lungo cammino regalato a padre Eugenio. Comodamente andammo in treno da Roma a Narni e in automobile da Narni all’eremo. "Però anche lassù - osservò il bruno autista che ci conduceva - da quando hanno fatto la strada, ci va troppa gente. Fino all’anno scorso, quando c’era solo la mulattiera, era un’altra cosa. Adesso, per le feste, ci arrivano con le motorette, con le automobili, con i pulman, perfino con i camions, ci passano la giornata, ci fanno merenda e addio pace". E scuoteva il capo. Ma saranno parentesi festive: il luogo è ancora di alta solitudine. La stessa città meno lontana dall’eremo non è di quelle che si raggiungono facilmente. Fuori delle grandi arterie ferroviarie, così erta su massi scoscesi che a guardarla dal treno sembra inaccessibile, Narni vuole essere meritata con un viaggio apposta e rimane bene in vista nel suo "muto orgoglio cittadino" memore di Cocceio Nerva e del Gattamelata, mentre l’eremo di sant’Urbano si nasconde tra le insenature della "giogaia di monti aspri, che van da Narni alla Sabina" (P. G. Mancini, Lo Speco di Narni, 1959), e lo speco che la presenza di san Francesco ha reso sacro, scompare addirittura dentro la roccia del monte Bandita, tutta ammantata di lecci e di aceri. Da Narni all’eremo, la strada nuova, ma non larga, sale e scende serpeggiando tra il verde e prospettando una catena di montagne, che cambiano colore ad ogni cambiamento della luce. Sono - come gran parte dell'Appennino umbro - imponenti, ma non superbe; le loro curve gravi e dolci dicono: "Pace", e predispongo al silenzio. Infatti, arrivati all’eremo, spontaneamente, si abbassa la voce e si tace; ecco un breve spiazzo; di fronte un portichetto a tre archi; a destra una chiesetta bianca dominata dal monte selvoso; a sinistra un muricciolo, balaustra rustica e insieme sedile, dinanzi ad un panorama vastissimo, che si apre a ventaglio dal Terminillo a Sangemini, abbracciando la valle del Nera e la conca ternana. Non compare anima viva. Sono spalancate tutte le porte: della chiesina, del convento, del chiostro. Il chiostro ricorda san Damiano d’Assisi: ma ha, più di quello, il monte a ridosso, è più piccolo, più rustico, un po’ sghembo, con archi bassi e asimmetrici colmi di fiori diversi, da un lato il pozzo con la carrucola e i ferri sormontati da una croce. Niente aiuole, pero un trifoglietto in fiore sbuca ricciuto dalle pietre sconnesse del vecchio lastricato, e lo invade a chiazze, con la prepotenza degli umili. Da una porta spalancata si vede un corridoio bianco e su scritto a lettere di scatola: "clausura", ma anche quel corridoio è aperto da un capo all’altro fino al sentiero opposto. Non hanno paura dei ladri, e nemmeno del cani e altre bestie, gli abitanti di questo eremo. Dal chiostro si passa ad una stanza scura, di cui una parete si curva ad abside e questa è affrescata pallidamente. Più in là si trova un piccolo refettorio, lungo e stretto che da una parte ha la mensa con la tavola di quercia massiccia e la panca a dossale, dall’altra l’acquaio di pietra e le finestrelle. Dal chiostro, per un certo andito che sembra scavato nella roccia, si entra in una quasi spelonca, dove nella penombra emergono quattro blocchi irregolari di pietra consunta, che formano la sponda di un pozzo. Nessun cicerone viene a offrire spiegazioni, ma una cosa s’indovina con certezza: questa è una reggia di madonna Povertà. Padre Gemelli vi avrebbe ritrovato quei "buchi e buchetti" che gli piacevano tanto a san Damiano, e insieme la selvaggia bellezza delle Carceri e di Fonte Colombo. Ritorniamo nel chiostro ad ascoltare il silenzio, contemplando l’altissima cupola boscosa sovrastante i tetti e tettini dell’eremo, e una chiesuola più su, a mezza costa, che ci mostra la curva estrema dell’abside, e buca il verde con il suo campaniletto a vela, fratello dell’altro, vicino a noi, ritto su quattro scaglioni di tegole. Finalmente compare qualcuno: è un vecchietto in giacca di fatica, capelli bianchissimi, viso cotto, occhi neri e grandi dietro lenti cittadine. Ci saluta garbatamente. "Non c'è nessuno in questo convento?". "Due frati". "Due soli". "Due padri. E servono tre parrocchie. Sono sempre in giro". "Conversi?". "Nessuno. Io li aiuto alla meglio". "Si può passare qui la notte?". "Sì, c’è una piccola foresteria, quasi nuova". "A che altezza siamo?". "Qui il convento è a 568 metri; lo Speco a 640". Sull’imbrunire ritornano uno dopo l’altro i due padri: smilzi, lindi, gentili, sembrano discesi da un affresco dello Spagna. E da loro impariamo che qui si fermò san Francesco nel 1213, al ritorno da una predicazione a Narni e nella valle del Nera. Dal villaggio di sant’Urbano, sul poggio sottostante, salì verso il monte e trovò tutto quello che desiderava per le sue soste contemplative; una gran foresta solitaria, un oratorio dedicato a san Silvestro (l’absidina affrescata pallidamente), un pozzo d’acqua sorgiva (quello della sponda pietrosa), e più in alto grotte scavate nella roccia, adattissime alla preghiera. Scelse la più stretta e profonda, ma non poté impedire ai discepoli di costruirgli una celluzza di sassi, con a fianco un oratorietto dove pregare e assistere alla Messa, senza scendere a san Silvestro. Per un viale scandito da quattordici alte croci e mal lastricato a gradoni schistosi, i frati ci conducono al ripiano del monte, dove sorge quel tuguriolo che comprende la celluzza e l’oratorio. Davanti, sta una strana roccia tra il rudere e il pilastro, sormontata da una croce di ferro. E’ ormai notte. A lume di candela, i frati ci mostrano l’oratorio, che ha un’absidina graziosissima (quella vista dal chiostro) a piombo sul dirupo, e la celluzza che conserva - difeso da una grata metallica - il letto di san Francesco. Non è il terribile letto della Verna, ma è tale che nessun malato ci vorrebbe giacere. E nemmeno un uomo sano. Sembra una corta barella fatta di assi di castagno tozze e rade, fissate alle sponde da chiodi di legno. Un ramo arrotondato serve da cuscino. Da una feritoia si vede il cielo e si sentono gli uccelli; dalla porticina bassa, girevole su cardini di legno potevano arrivare a Francesco le voci dei compagni oranti. E doveva star proprio male, se si permise di chiedere un po’ di vino. "Lo sai che non ne abbiamo", gli risposero quei fedelissimi di madonna Povertà. "Datemi un po’ d’acqua". Di corsa scesero ad attingere nel pozzo vicino a san Silvestro. Tornarono con un secchiello di rame colmo d’acqua pura. Il santo, prima di bere, la benedisse secondo il solito, con un segno di croce, ma forse ci mise un’intenzione particolare? Forse chiese al Signore quel ristoro che la sua volontaria povertà gli negava? Accostato il secchiello alle labbra, non riuscì a nascondere un limpido riso. Era ottimo vino. Non se ne meravigliò; si persuase sempre più che "il tesoro della santa Povertà così nobile ha per servitore Iddio". "E appena ebbe bevuto quel vino miracoloso, subitamente guarì" (I Cel., 61). Questa è storia registrata dal Celano e da san Bonaventura (Leg. Maior, V, 10), ma la leggenda racconta che un altro conforto gli venne dalla cetra di un angelo, apparso sul pilastro di quella rupe, sentinella del tugurio. "Ecco lo speco di san Francesco, la grotta di sant’Antonio, la grotta di san Bernardino". I frati accennano alla parete di roccia che cinge il ripiano, ma l’oscurità crescente permette appena di scorgerle. Invece si profila visibilmente un grande albero detto il castagno di san Francesco, perché nacque dal bastone che il Poverello piantò nel prato prima di lasciare l’eremo. Dopo sette secoli e mezzo, da ancora frutto. "Mi piacerebbe avere di quelle castagne", dico a mezza voce. E’ buio. Ritorniamo al convento; da una porta del chiostro scendiamo, per una scala esterna, alla foresteria, che è una stanza bianca, nuda, con una tavola in mezzo, poche sedie, e la grazia del caminetto ad una parete. "Che cosa gradiscono per cena?" domanda cortesemente il frate più giovane, che è il superiore di quella comunità a due. "Una minestrina? Del prosciutto?". "Anche meno!" rispondiamo, tutte prese dalla poesia della povertà. "Basta un po’ di formaggio". Un lieve imbarazzo annuvola il sorriso di padre Ambrogio. Mi mordo la lingua. Correggo in fretta: "Basta un po’ di verdura". Altro lieve segno d’imbarazzo. Ma fino a che punto sono poveri questi frati? "Ci diano quello che hanno", dice pronta la mia amica. "Tutto va bene". E così impariamo che la vera povertà non ha scelta, deve prendere ciò che le offrono. Mentre ci preparano la cena, saliamo al piano superiore, dove, lungo il corridoio, si allineano tre cellette, tre sole. La mia ha il tetto a capanna, i travicelli scoperti, una finestrina arcuata con tre gradini per arrivarci, un tettuccio, un lavamani di ferro, una sedia: tutto pulitissimo. Mi affaccio: nell’oscurità serena si discoprono monti e monti; in alto stelle, intorno lucciole, in basso lumini di villaggi, più giù luci saettanti di automobili. Un buon odore di fumo di legna - acero? carpini? - effonde nel silenzio un’intimità di cucina all’antica e parca. Pace, dolce pace. Scendiamo. La cena è pronta sulla tovaglia candida: minestra, prosciutto, vino bianco, pane casalingo. Stiamo per finire, quando Beppe, il vecchietto compìto, ci porta un piatto di lattuga freschissima e saporosamente condita. Chi sa dov’è andato a prenderla per ordine di padre Ambrogio! Usciamo all’aperto e, ripassando per il chiostro, torniamo sul piccolo sagrato, che gode l’ampio scenario dei monti, a quest’ora sommerso nell’ombra, ma non tanto da impedire ai due frati, sbucati dalla chiesina, di spiegare, segnalando gruppetti di lumi: sant’Urbano, Lugnola, Aguzzo, Finocchieto, più lontano Stroncone, in fondo quella fiamma rossa: Terni. La topografia c’interessa meno dei discorsi di padre Ambrogio, che riassume la storia dell’eremo, e di padre Placido, che da molti anni ci vive e ne conosce i segreti e le leggende. Padre Ambrogio racconta che "il luogo" di sant’Urbano, sempre custodito dalle lance spezzate della Povertà, fu restaurato da san Bernardino, forse nel 1426, quando predicò a Viterbo, a Todi, a Rieti, ad Amelia: il suo sorriso, che tempera l’appassionata povertà di san Francesco, accoglie il visitatore nel portichetto esterno a tre archi e lo accompagna nel chiostrino, nel refettorio, nel dormitorio. Tra il Seicento e il Settecento i Riformati videro nell’eremo di sant’Urbano una roccaforte della più stretta osservanza e il ven. Pietro da Orvieto, contemporaneo di san Leonardo, lo risollevò ai fastigi della santità. Così ogni risucchio della grande onda francescana verso le origini, riscopre il tesoro di sant’Urbano. Padre Ambrogio non dice di più, ma a questo punto, io, io sola, odo la voce di padre Eugenio che, con il suo accento straniero riprende a raccontare nell’ombra notturna: "Vennero anni duri. I frati dovettero abbandonare sant’Urbano, benché i più fedeli alla tradizione, come il generale padre Bonaventura Marrani, l’avessero sempre nel cuore. Nel 1943, durante la guerra, padre Placido partì solo da san Damiano con in tasca il denaro per il biglietto e basta. Quando arrivò all’eremo non c’erano né finestre, né mobili. Le piante erano entrate nelle camere e la gente si era servita di tutto il mobilio. Lavorò delle settimane, mangiando pane e insalata. Un giorno, stanco di tutto, partì. Voleva tornare a san Damiano. Sotto la roccia si fermò un’ultima volta a guardare questo povero speco. Allora un dolore lo prese; non poteva lasciarlo, e ritornò. Poi padre Ambrogio venne ad aiutarlo. La sera stanchi dicevano il breviario alla luce del fuoco e... si addormentavano, l’uno di qua l’altro di là". Intanto padre Placido, non sospettando che qualcuno narri i suoi "Fioretti" inediti, parla delle lepri, che saltano ingenue dai boschi sulla strada e si lasciano prendere senza fucile; delle api, che si annidano nel tronco di un leccio antichissimo e non se ne allontanano, per quanto i pastori si sforzino di farle sciamare; ci racconta i miracoli registrati nelle cronache del conventino. Dicono le antiche cronache che nel febbraio 1678, un inverno rigidissimo, ai frati mancò l’olio e quando già si adattavano a mangiare legumi sconditi, trovarono in dispensa, colma d’olio color topazio, la brocca, che da tempo era vuota. E per mezzo di quell’olio "portato da mano angelica, Dio operò molti miracoli, a prò e beneficio dei fedeli divoti". Dicono le antiche cronache che durante la pestilenza del 1686, i capi di Magliano Sabina mandarono a prendere una soma d’acqua del pozzo di san Francesco, la distribuirono in bicchierini alla popolazione e la peste scomparve. Dicono le antiche cronache che i frati, a mattutino della domenica e delle feste grandi, solevano andare in processione dalla chiesetta del convento fino allo speco. Una notte festiva del 1704, o fossero stanchi, o fossero occupati, o il campanaro avesse dimenticato di svegliarli, non si mossero, e la mattina seguente ne ebbero grande rimorso. Ma il guardiano, andato a Lugnola a celebrare, si sentì dire: "Ch’avete fatto stanotte? Ch’avete fatto? Che bellezza tutta quella luce!". E un altro frate ad Aguzzo si sentì dire lo stesso: "Ma che bellezza stanotte, tutti quei lumi! Ch’avete fatto?". E un altro padre a Finocchieto fu assalito dalle medesime esclamazioni: "Ch’avete fatto stanotte? Che bellezza tutta quella luce! Ch’avete fatto?". Capirono allora che angeli e santi francescani erano scesi dal Paradiso per onorare al posto loro lo speco di san Francesco. Sarà una variante della leggenda della Verna, quella degli uccelli, che una notte di neve sostituirono i frati nella processione notturna alla cappella delle Stimmate? Non importa. Nella malinconica cadenza umbra di padre Placido, la ripetizione: "Ma ch’avete fatto stanotte? Ch’avete fatto?" prende il ritmo litaniaco di una lauda duecentesca. Con questo ritmo e con queste immagini da "Fioretti" risaliamo alle nostre celle. Lo stellato fulgente mi attrae alla piccola finestra, ma bisogna pure dormire! Alle tre e un quarto la luce sbianca già le pareti e viene da occidente e da oriente: da occidente un raggio di luna calante, da oriente una lista d’alba sul labbro bruno dei monti, che più tardi l’aurora orla di rosa, e poi d’oro. Dal mio lettuccio vedo la costa del monte, verdissima; affacciandomi, è ancora la gamma molteplice del verde in ondulazione frondosa di colli e vallicelle a rapirmi gli occhi; è una fragranza di terra, di radici, di bosco risvegliato a rendermi i sogni della giovinezza. Il sole è già alto, quando saliamo allo speco. E’ a grandi strati irregolari, spaccati da almeno tre grotte, quella di sant’Antonio, quella più aperta di san Bernardino, quella strettissima di san Francesco, detta lo speco: fenditura alta, che si sprofonda nella roccia e dall’esterno pare una ferita slabbrata della pietra. San Francesco vi scorse - come alla Verna - la traccia del terremoto, che spezzò i macigni, quando Gesù morì, e per questo l’amò. Non gli bastava inselvarsi per contemplare la bellezza e la potenza del Creatore, voleva piangere la passione del Salvatore, voleva sentire la redenzione anche nelle viscere sassose della terra; voleva, lui uomo, affermare la sovranità di Cristo sulle cieche forze telluriche. Assistiamo alla Messa proprio nell’oratorio di san Francesco, preghiamo nella sua celluzza, su quel suo letto impossibile e pensiamo che proprio qui, tra lo speco e l’oratorio, il genialissimo santo si ritemprò all’apostolato; qui, come alla Verna, alle Carceri, a Greccio, a Fonte Colombo, usciva dalla storia per rientrare nella storia, passando dalla vita eremitica più aspra all’apostolato più logorante, dalla preghiera più estatica all’orazione più intensa. Non è meraviglia, se attingendo dalla Grazia e dalla natura energie sempre nuove e poi bruciandole tutte nel rogo della carità, in soli sedici anni facesse tante cose, e lasciasse un’impronta così vasta e durevole. Vediamo al sole il castagno di san Francesco, un gigante decrepito che, accosto al tronco scortecciato, sente crescere una tribù di arbusti pullulanti dalle sue stesse radici. Mentre riscendiamo al conventino, non posso fare a meno di pensare alla sua storia, che padre Ambrogio ieri interruppe proprio al punto in cui entravano in scena lui e padre Placido. Domando: "Padre Eugenio non ha lavorato per l’eremo?". "Sì, mi risponde, venne con dei ragazzi svizzeri ogni anno, nell’estate, dal 1948 al ‘53 e ci aiutò a riattare il chiostrino. Ma dove lavorarono di più fu alla foresteria, nel ’53. Fecero quasi tutto loro". Sento io solo la cordiale risata di padre Eugenio. "Che fatica! - dice con la sua pronuncia tedesca - Di questa foresteria stavano soltanto i muri. Dentro era un solo vuoto sotto il tetto... Per fare l’accesso di fuori dovevamo far saltare sassi (non con la polvere, ma colla mano) e costruire un grande muro e una terrazzina. Per costruire i piani dovevamo mettere travi di ferro, portati sulle spalle lassù. Avevamo fatto i buchi nel muro, pietre durissime, e quando volevamo mettere i travi, questi erano troppo lunghi! Che cosa fare? Rinviare i travi alla fabbrica? Portarli di nuovo in basso della montagna e portare altri in alto? Impossibile! Per tagliare non avevamo strumenti. Non rimaneva che fare i buchi nel muro più profondi. Il muro è molto grosso. Ma più i buchi erano profondi e più era difficile lavorare con martello e scalpello. I giovani ricordano ancora quel lavoro. Ma che povere sono queste parole in comparazione delle grazie e gioie che hanno invaso tutta la nostra anima in quel sacro speco! Quante ore sono rimasto tutto solo sulla terrazza dove stanno la cappella e il castagno. Non ho mai più trovato profondità di preghiera come lì". Sento la verità delle parole di padre Eugenio. Leggenda e storia si danno la mano in questo eremo fuori del mondo, e i "Fioretti" vi nascono ancora, freschi e aulenti come nel secolo XIII. Ci distacchiamo malinconicamente dall’eremo. Vorremmo portare dentro di noi quel silenzio, chiudere in una fiala quell’aroma di selva e di preghiera, non perdere mai di vista la casta bellezza della povertà. Ma già l’auto strombetta. Presto, presto, andiamo! Padre Ambrogio mi trattiene un momento. "Per ricordo dell’albero di san Francesco!" dice, e mi lascia una manciata di castagne. Maria Sticco, Ottobre 1960
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