Locci architetto e scenografo a Varsavia AGOSTINO LOCCI IL VECCHIO (1601-dopo il 1660) SCENOGRAFO ED ARCHITETTO DI CORTE DEI RE IN POLONIA (ed. Instytut Sztuki Polskiej Akademii Nauk, Warszawa 2003) HANNA OSIECKA-SAMSONOWICZ |
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Narni produsse agli inizi del 1600 vari
artisti che si fecero onore presso le corti di Polonia e Francia,
distinguendosi nella realizzazione e esecuzione di spettacoli di
Corte, parliamo di Anerio, Pacelli, Buti e la famiglia Locci.
Rileggendo la storia di Narni e dei suoi personaggi famosi, non
possiamo trascurare questo aspetto artistico legato alla nostra
città. Qualche tempo fa rimasi incuriosito dalle immagini tratte
da un testo in polacco, che parlava di Narni. Grazie a google trovai
molte informazioni, che essendo in lingua polacca, erano di difficile
consultazione , almeno per me. Decisi allora di approfondire la cosa e
con degli amici polacchi di Narni , la famiglia Chowanska - Zmujdzin
iniziai la mia ricerca. Per chi volesse approfondire la ricerca in polacco consigliamo la parola chiave Augustyn Wincenty Locci, twórca pałacu w Wilanowie ed anche Augustyna Locciego . Agostino Locci nacque figlio di un nobile di Narni, Erasmo Locci, e di Vittoria, figlia di Giovanni Antonio Raymundi (Raymondi) di Roma. Fu battezzato il 7 maggio 1601 nel duomo di Narni. La madre era rampolla di una famiglia benestante, proprietaria di immobili nel cuore di Roma. Dall’archivio Diocesano di Narni si
trovano indicazioni sia sul libro dei Battesimi che sul libro dei morti
della cattedrale di San Giovenale a Narni . in particolare si legge il
documento : Si trova poi un documento nel libro dei morti per l’anno 1608 il sedici settembre , data in cui si cita un altro Loccius , non meglio identificato (Forse un Tommaso ,,Thomas) che muore e viene sepolto in cattedrale . I. VITA E OPERA Agostino Locci (1601-dopo il 1660), scenografo e architetto di corte dei re della dinastia Vasa, Ladislao IV prima e Giovanni Casimiro poi, è un artista fin qui poco noto nella letteratura polacca del settore. Questa scarsità di notizie sembrerebbe indicare che il valore artistico della sua opera non fosse di particolare pregio e originalità. Allo stesso tempo gli storici del teatro e gli studiosi dell’architettura hanno concentrato l’attenzione su Agostino Vincenzo Locci, suo figlio e allievo, architetto del re Giovanni III Sobieski. Quindi, l’opera del figlio ha finito per offuscare la fama del padre; l’erronea trascrizione del nome nei documenti archiviali più volte ha reso difficoltosa l’identificazione dell’opus e la ricostruzione dell’interessante biografia di questo artista. Non è privo d’importanza il fatto che nessun’opera architettonica né progetto scenografico del Locci padre si sono ad oggi conservati. Colonna realizzata da Agostino Locci a Varsavia Agostino Locci nacque figlio di un nobile di Narni, Erasmo Locci, e di Vittoria, figlia di Giovanni Antonio Raymundi (Raymondi) di Roma. Fu battezzato il 7 maggio 1601 nel duomo di Narni, quindi possiamo supporre che la data della sua nascita fosse di poco anteriore. La madre era rampolla di una famiglia benestante, proprietaria di immobili nel cuore di Roma. Probabilmente facevano parte della sua dote i due palazzi ereditati dal Locci alla morte di Vittoria: l’uno nelle vicinanze del Palazzo Farnese, l’altro nei pressi della chiesa di S.Andrea della Valle. Molti anni dopo Locci li avrebbe elencati nel proprio testamento tra le fonti importanti delle sue entrate. Resta ignoto chi fosse il nonno del Locci, di cui conosciamo solo il nome, annotato sull’atto di battesimo dell’artista. Forse era un parente di Girolamo de Raymondi (m. 1628) della cerchia più stretta dei cortigiani di Paolo V e successivamente di Urbano VIII, e di Francesco de Raymondi (m. 1638). Entrambi sono sepolti nella cappella di famiglia in S. Pietro in Montorio di Roma, progettata da Gian Lorenzo Bernini. Con ogni probabilità Agostino Locci studiò a Roma, distante da Narni un centinaio di chilometri. Nelle sue opere architettoniche e scenografiche eseguite più tardi in Polonia sono visibili gli influssi del barocco romano. In effetti, i polacchi diedero all’artista il soprannome di "romano". L’utilizzo nell’opera matura del Locci dei progetti architettonici di Ottaviano Mascarino, conservati negli archivi dell’Accademia di San Luca, potrebbe indicare qualche legame con quella scuola, tuttavia non si è conservata alcuna testimonianza scritta che potesse confermare tale supposizione. Un’altra traccia porta agli ambienti dell’èlite artistica di Roma, raccolta sotto il mecenato di Francesco e Antonio Barberini, nipoti di Urbano VIII. Uno dei supposti parenti del Locci, Girolamo de Raymondi, era uomo di fiducia del papa, quindi l’artista poteva contare su protezioni altolocate. L’ipotesi sembra trovare conferma nelle lettere che Mario Filonardi, nunzio apostolico a Varsavia (1635-1642), inviava al cardinale protettore della Polonia Francesco Barberini. Locci è l’unico artista più volte nominato in quella raccolta epistolare che conta migliaia di pagine. Sicuramente l’autore delle lettere lo conosceva, ed è impossibile pensare che non fosse noto anche al destinatario. Ladislao IV Vasa. Non conosciamo la data esatta della partenza del Locci per la Polonia, su invito di Ladislao IV Vasa. Le sue vicende restano ignote fino all’estate del 1636, quando egli si trova a Vilnius, come testimoniano le fonti scritte. Sembra tuttavia che fosse presente alla corte del re già da qualche tempo. Forse vi era giunto già nel 1635, o persino nel 1634, al seguito del fratello del re, principe Alessandro Carlo Vasa, allora di ritorno da un viaggio in Italia. Forse allora Ladislao IV, affascinato dagli spettacoli "in musica" sin dai tempi del proprio viaggio italiano, affidò al fratello il compito di condurre lo scenografo italiano in Polonia. Non possiamo escludere però che l’artista fosse giunto alla corte dei Vasa mentre era ancora in vita il padre di Ladislao, Sigismondo III Vasa, morto nel 1632. Quindi dobbiamo assumere quell’anno quale data post quem dell’arrivo di Agostino Locci in Polonia. Dal 1636 il nome Locci compare sempre più spesso nei documenti d’archivio. Le scenografie per il "dramma musicale" andato in scena a Vilnius in settembre di quell’anno, Il ratto di Helena, costituiscono il suo primo lavoro effettuato in Polonia, documentato dalle fonti. Nell’autunno del 1636 l’artista è già a Varsavia. Ci informa il nunzio Filonardi che „S. M.tà [...] ha ordinato al Locci suo Ingegnere di far lavorare le machine per comedie da farsi in occasione del suo Matrimonio [...]". Nel settembre dell’anno seguente hanno luogo le nozze di Ladislao IV con Cecilia Renata d’Asburgo, magnificamente celebrate con molte cerimonie e feste di corte, come un balletto drammatico e uno spettacolo "in musica" La Santa Cecilia. Probabilmente, dopo il successo della rappresentazione di Vilnius la posizione di Agostino Locci alla corte reale si fece alquanto forte. Quale scenografo reale, „il romano" rappresentava alla corte una professione che richiedeva molteplici capacità e che presso le corti dell’Europa di allora godeva di particolare prestigio ed era lautamente retribuita. Locci era responsabile di „[...] machini, et altre inventioni per le comedie e feste che si preparano per il Matrimonio di S. M.", che, secondo la moda occidentale, esigevano un ricco apparato scenografico, quindi l’artista fu indubbiamente tra i più importanti creatori di tali spettacoli. Allo stesso tempo sovrintendeva anche alla costruzione di un teatro di suo progetto all’interno del Castello Reale, partecipava ai lavori di restauro degli interni del Castello e della Villa Regia, la residenza del monarca nei pressi di Varsavia. Nel febbraio 1638 l’artista iniziò i preparativi per un nuovo spettacolo „in musica", Narciso Trasformato, messo in scena nel teatro del Castello. Probabilmente fu in quello stesso periodo che Locci decise di mettere su famiglia e di stabilirsi per sempre in Polonia. Intorno al 1639 sposò Ursula Dorota, figlia di un ricco casato varsaviano dei Giza. Con ogni probabilità il loro primo figlio, Agostino Vincenzo, nacque nel 1640. Negli anni successivi nacquero altri figli della coppia: Francesco, Cecilia, Casimiro e Giovanni. Tutta la famiglia abitava nel Castello Reale. Le prime notizie dei lavori architettonici del Locci risalgono al 1642, quando l’artista progettò una chiesa fondata da Ladislao IV per i Padri Scolopi a Varsavia. I problemi finanziari del re bloccarono il completamento dell’opera, che fu eretta solo in parte, poi comunque rasa al suolo durante la guerra con la Svezia. Più o meno nello stesso periodo l’artista eseguiva altri lavori, non meglio identificati, per la corte: il suo nome si ripete più volte nelle scritture contabili del re. Sempre intorno al 1642, su ordine del re, il Locci elaborò il progetto del monumento a Sigismondo III Vasa e la soluzione per il sito del monumento nei pressi del Castello.
Nel 1646, in occasione del solenne ingresso della seconda moglie di Ladislao IV, Ludovica Maria Gonzaga, a Danzica fu messo in scena un "dramma in musica" Le Nozze di Amore e di Psiche. Locci fu l’autore delle scenografie per la messa in scena, nonché il costruttore di un teatro provvisorio in legno, sede della rappresentazione. La fine del 1647 vide Agostino Locci a Vilnius, dove sovrintendeva alla costruzione di un palcoscenico che avrebbe dovuto ospitare l’ultimo "dramma in musica" rappresentato durante il regno di Ladislao IV – La Circe Delusa. Alla fine la rappresentazione diede lustro al solenne ingresso di Ludovica Maria Gonzaga nella capitale lituana nella primavera dell’anno seguente. La morte di Ladislao IV (20 maggio 1648) non pose fine alla carriera cortigiana del Locci. Negli anni Cinquanta del secolo lavorò al servizio di Giovanni Casimiro Vasa: rimodernava la Villa Regia e riceveva abbondanti e regolari emolumenti quale scenografo reale per la realizzazione di diversi spettacoli di cui nulla si sa di preciso. Sembra aver partecipato alla guerra contro la Svezia (1655-1656), forse prese parte alla difesa di Varsavia nel 1656. Non sappiamo per quale motivo (forse perché aveva perso la benevolenza del re, o forse a causa delle ferite riportate) Locci non partecipò più a quella ripresa della vita teatrale a corte che si verificò dopo la fine della guerra. Il 21 ottobre 1660 dettò il suo testamento in cui distribuiva le sue sostanze tra gli eredi. Una notevole quantità di argenteria, gioielli, stoffe e vesti preziose testimoniano che era un uomo ricco. Il documento fu redatto in un polacco abbastanza semplice, ma sufficientemente corretto per indicare che l’artista italiano era ormai ben radicato nella cultura polacca. La data precisa della sua morte rimane ignota. Sappiamo però che morì all’età di circa sessant’anni, forse poco dopo aver dettato il testamento. La vedova si risposò e si trasferì a Cracovia. I figli dell’artista, eccetto Agostino Vincenzo, non seguirono il padre nella professione. Nemmeno i loro discendenti, menzionati nelle fonti storiche polacche fino all’inizio del XIX secolo si occuparono mai dell’arte: rivestivano cariche pubbliche negli uffici territoriali o erano militari di carriera. Agostino Locci godeva di un particolare favore presso Ladislao IV, entrambe le sue mogli e il suo successore al trono. Lo testimoniano, tra l’altro, numerose donazioni e regali menzionati nel testamento, il fatto che la famiglia Locci alloggiava nel Castello Reale, quindi nelle dirette vicinanze del monarca, e che il figlio dei Locci, Casimiro, ebbe per madrina la regina Ludovica Maria Gonzaga in persona. Tra le ragioni di tali privilegi c’è da considerare la professione del Locci e le sue capacità, così poliedriche e uniche in Polonia, che furono, evidentemente, assai apprezzate dai suoi regali mecenati. I lavori del Locci qui menzionati e documentati dalle fonti storiche non esauriscono il corpo della sua opera. Il presente volume è un tentativo di riordinare e ridefinire l’opera e l’attività dell’artista sia come scenografo, sia ingegnere teatrale e architetto, in base agli studi esistenti e ad una nuova ricerca documentale.
II. OPERE SCENOGRAFICHE Agostino Locci giunse alla corte dei Vasa in piena maturità creativa, portandosi appresso tutto il bagaglio di esperienze artistiche. Non fece mai ritorno in patria, tuttavia mantenne sempre vivi i contatti con il suo Paese. In Polonia non ebbe possibilità di sviluppare le sue capacità pratiche né di ampliare le conoscenze teoriche. Quindi dobbiamo assumere che, come scenografo, egli abbia semplicemente sfruttato le esperienze dei maestri italiani, conosciuti direttamente oppure da relazioni scritte, incisioni o numerosi trattati, arricchendole con le proprie idee nel campo delle tecniche di scena. La prestigiosissima, nell’Italia dell’epoca, professione di ingegnere – scenografo che includeva sia la progettazione di edifici d’architettura teatrale che gli allestimenti, con i necessari cambi di scena, i macchinari complessi e gli effetti speciali utilizzati nelle produzioni teatrali e parateatrali, nacque a Firenze verso la metà del Cinquecento. A partire dagli inizi del Seicento gli artisti italiani – o stranieri ma formati in Italia – la propagarono in tutta l’Europa, con esiti più o meno fortunati. Proprio grazie ad Agostino Locci, già verso la metà del Seicento, quindi tra i primi in Europa, si sviluppò in Polonia un centro di scenografia teatrale di una certa importanza. Per ristabilire e rivalutare l’opera del Locci sarà necessario individuare le sue fonti d’ispirazione, teoriche e pratiche, che definirono i contorni della sua attività, nonché tratteggiare brevemente un quadro storico dell’apparato visivo degli spettacoli di corte in Polonia nel periodo precedente il suo arrivo in Polonia quale sfondo indispensabile per tentare di stabilire il ruolo avuto dall’artista nella storia della cultura non soltanto polacca, specialmente visto che (come abbiamo già accennato) nessuno dei suoi progetti scenografici si è conservato fino ai nostri tempi.
1. SPETTACOLI TEATRALI E PARATEATRALI IN POLONIA PRIMA DELL’ARRIVO DI AGOSTINO LOCCI I primi elementi di arte scenografica italiana moderna comparvero in Polonia relativamente tardi. Le forme di teatro rinascimentali stentarono di affermarsi in Polonia nonostante vivaci contatti intellettuali con l’Italia e la presenza della regina Bona Sforza, nel Paese dal 1518. Il primo spettacolo allestito, forse con un fondale scenografico che si rifaceva alla scena frons palladiana o alla versione “tragica” delle decorazioni sceniche proposte da Sebastiano Serlio, fu il dramma Odprawa poslów greckich (Il rinvio degli ambasciatori greci) di Jan Kochanowski, prodotto nel 1578, in occasione delle nozze del cancelliere Jan Zamoyski. Per le seconde nozze del cancelliere, nel 1583, a Cracovia, fu allestito uno spettacolo parateatrale e un corteo trionfale in cui furono utilizzati macchinari di sollevamento, carri semoventi, effetti idraulici e pirotecnici presi a prestito dalla prassi scenica. I progetti per i costumi di queste celebrazioni furono individuati tra le illustrazioni del libro Tournois magnifique tenue en Pologne, conservato nella Royal Library di Stoccolma. Lo sposalizio di Sigismondo III Vasa e Anna d’Asburgo nel 1592 fu, come entrambi i matrimoni di Zamoyski, un’occasione per i magnifici festeggiamenti su modello italiano. Oltre alle cerimonie religiose d’uso, furono organizzati una giostra, un corteo e uno spettacolo parateatrale allestito in un edificio provvisorio con la copertura a tenda. Su uno dei lati più corti dell’edificio fu costruita una sorta di palcoscenico rifinito da decorazioni "satiresche", stabilite da Serlio per le commedie. Sulla scena entrò una macchina a forma di rocca con una torre in cima, da cui emersero gli attori. Complicate macchine-carri, probabilmente in parte semoventi, che trasportavano „i quadri viventi" furono mostrate prima che iniziasse il "torneo a piedi" nella sala del castello di Wawel, e il giorno seguente, in un corteo solenne sulla piazza del mercato di Cracovia. Le relazioni scritte giunte a noi raccontano, tra l’altro, di una conchiglia tirata da due mostri marini, un vascello in movimento sulle onde, un monte in fiamme sostenuto da due coccodrilli e Lucifero nell’inferno. I carri erano l’omaggio al re preparato da magnati e dignitari di corte formati nella cultura italiana, e l’intera manifestazione aveva indubbiamente le radici italiane. Un balletto, introdotto da un breve dramma, fu allestito per le seconde nozze di Sigismondo III con Costanza d’Asburgo, nel 1605. La produzione, chiaramente modellata su quella precedente descritta sopra, fu ospitata in un apposito edificio provvisorio eretto a Wawel. Il palcoscenico occupava uno dei due lati corti; lungo gli altri lati furono poste le strutture per il pubblico. Anche questa volta lo spettacolo iniziò con l’apparizione di un grande monte avvolto dalle fronde; dall’interno di una roccia posta in mezzo emersero i musici e i danzatori. Tranne che per questi spettacoli, l’epoca del regno di Sigismondo III non fu determinante per lo sviluppo del teatro e dell’arte di scenografia. Oltre ai comici dell’arte, all’epoca si esibivano soprattutto le troupe inglesi che usavano le scenografie tratte dalla pratica scenica medievale. L’evento più importante per le sorti del teatro in Polonia fu il viaggio "europeo" del principe Ladislao Vasa, futuro re Ladislao IV, che in quell’occasione visitò anche l’Italia (1624-1625) dove fu spettatore dei „drammi in musica" allestiti in suo onore e poté visitare teatri italiani. A Parma vide una commedia di cui non sappiamo il titolo, visitò il Teatro Farnese ancora inattivo, e a Vicenza poté vedere il Teatro Olimpico. I due spettacoli "in musica" predisposti per lui a Firenze dalla reggente Maria Maddalena de’ Medici, sua zia: La Regina Sant’Orsola nel Teatro degli Uffizi e La Liberazione di Ruggiero dall’isola d’Alcina nella Villa Poggio Imperiale fuori città, gli fecero una grande impressione. A Mantova gli ospiti polacchi poterono seguire uno "spettacolo del diluvio", non meglio identificato. A Vienna il giovane Vasa ammirò il balletto, popolare alla corte degli Asburgo, in due spettacoli organizzati per il desiderio dell’imperatrice. Tuttavia, al suo ritorno in patria non fu possibile allestire alcun "dramma in musica". Soltanto nel 1628, alla corte di Varsavia, fu approntata una rappresentazione su Aci e Galatea, noto nella letteratura del settore con il titolo La Galatea. Fu la prima rappresentazione in Polonia con scenografia barocca e quinte mobili, ed anche una delle prime di questo tipo fuori dell’Italia. Il nunzio apostolico in Polonia Antonio Santa Croce riferì allora a Roma, che il principe reale ordinò di rappresentare: "la favola pescatoria di Galatea, con intermedi apparenti, machine e cosi simile avendo condotto in Polonia un ingegnere Mantovano". Il sommario rinvenuto recentemente permette di ricostruire alcuni elementi delle scenografie dello spettacolo. Sul palcoscenico furono mostrati: Galatea che emergeva dal mare su un carro tirato da due delfini, Venere su un veicolo volante, portato da due colombi, "il cielo che si apre" con gli dei assisi sulle nuvole, tuoni, lampi e creature fantasmagoriche, simboleggianti incubi notturni. In un finale molto movimentato apparve la figura della Sarmazia ascesa poi in cielo su una nuvola e la personificazione dell’Eternità, calata sulla scena da una "machina mundi" rotondeggiante. Sarebbe difficile provare in base alle scarne note didascaliche che per quel spettacolo furono utilizzate le quinte girevoli, anche se l’osservazione "si muta la scena" sembrerebbe indicarlo. Invece non c’è dubbio che furono utilizzati congegni di sollevamento ed effetti pirotecnici e acustici. E’ rimasto ignoto l’autore delle scenografie di quell’unica rappresentazione di Varsavia. Più volte è stato suggerito, erroneamente, che "l’ingegnere Mantovano" potesse essere Agostino Locci. Sappiamo che il principe reale si fermò a Mantova solo per tre giorni. Forse allora conobbe qualche artista del luogo. Un suo invito avrebbe potuto allettare qualcuno due anni più tardi, quando la morte senza eredi di Ferdinando Gonzaga scatenò la lotta per la successione, portando alla chiusura del teatro e all’abbandono della città da parte di molti autori e cantanti. Non è possibile attribuire la paternità di quello spettacolo a nessuno degli scenografi più importanti di Mantova, e nemmeno a Antonio Maria Viani, all’epoca preso dai preparativi per le cerimonie funebri del principe Vincenzo II, né a Gabriele Bertazzolo allora già morto. Poteva invece trattarsi di suo cugino, Giovanni Bertazzolo, sovrintendente dal 1610 circa dei preparativi per diversi festeggiamenti a Mantova, per quanto l’ipotesi di un suo soggiorno in Polonia non è suffragata dalle prove. Non si può nemmeno escludere che l’anonimo artista sia arrivato alla corte dei Vasa non direttamente dall’Italia, bensì via Vienna o Praga. La corte di Ferdinando II e Eleonora Gonzaga fu un importante centro della vita teatrale in quella parte d’Europa sin dal matrimonio dell’imperatore nel 1622. I contatti dei Vasa con gli Asburgo dovevano essere intensi, infatti, entrambe le mogli di Sigismondo III Vasa erano figlie di quel casato: Anna, la madre del principe reale, e Costanza. Anche Cecilia Renata, moglie di Ladislao IV, era una Asburgo. Quindi la traccia "mantovana", indicata dalla lettera del nunzio, rimane oscura. Pare che la "favola pescatoria" sull’amore di Aci e Galatea, per quanto un piccolo episodio artistico, svegliò l’interesse della corte per un nuovo genere di divertimento. Nel corso dei successivi sette anni, però, tale esperimento non si è più ripetuto. Questo per varie cause come i problemi finanziari del principe, il periodo politicamente difficile per la Repubblica, la morte del padre Sigismondo III e, infine, l’elezione del nuovo re. Inoltre, non si riusciva a riunire un adeguato gruppo di artisti di teatro. Veramente, alla corte erano presenti due uomini illustri, futuri autori del teatro del re: il librettista Virgilio Puccitelli e il compositore romano Marco Scacchi. C’era ancora un’ottima orchestra che Ladislao ereditò dal re Sigismondo. Ma continuava a mancare uno scenografo capace di costruire macchine teatrali e di effettuare a vista dei fulminei cambi di scena. Non sappiamo se una qualsiasi rappresentazione di musica abbia accompagnato le cerimonie dell’incoronazione di Ladislao IV. I primi tempi del regno furono dedicati alla soluzione di non facile situazione politica, soprattutto a causa dei crescenti pericoli di guerra da parte turca e moscovita. Forse un certo impulso alla rinascita dell’interesse per il dramma musicale potrebbe essere attribuito alle esperienze con il teatro del fratello del re, Alessandro Carlo Vasa, rientrato nella primavera del 1634 da un viaggio in Italia. Nel Palazzo della Cancelleria di Roma Antonio Barberini aveva allestito in suo onore il famoso spettacolo Sant’Alessio. La prima rappresentazione di un "dramma in musica", a noi nota, realizzata durante il regno di Ladislao IV ebbe luogo soltanto nel maggio 1635. La messa in scena di questo dramma inaugurò una stagione magnifica per la storia del teatro in Polonia, destinata a durare più di dieci anni. Su iniziativa di Ladislao IV prima, e del fratello e successore Giovanni Casimiro poi, furono allestite oltre venti rappresentazioni di pièces teatrali e di balletti con l’introduzione drammatica nelle varie occasioni di corte, come le feste di carnevale, le nozze del re e dei suoi familiari, le visite di ospiti stranieri illustri e la conclusione di importanti dibattiti del Parlamento. A partire dal 1637 questi spettacoli furono rappresentati sul palcoscenico "alla fiorentina" costruito nel Castello Reale, tra i primi ad essere eretto a nord delle Alpi.
2. FONTI STORICHE Nessun progetto di scenografie e costumi per il teatro "in musica" dell’epoca dei Vasa è giunto a noi. Quindi il tentativo di ricostruire l’attività di Agostino Locci scenografo e architetto teatrale, può basarsi soltanto sui materiali d’archivio, come le segnalazioni esplicative aggiunte al testo dei libretti italiani e dei sommari polacchi, i conti della casa reale, lettere, diari e relazioni dei testimoni oculari: gli spettatori. Tra le fonti d’archivio raggiungibili, le più ricche e complete sono le didascalie dei libretti italiani e i sommari in polacco; queste pubblicazioni, relative a tutti gli spettacoli di cui parleremo in seguito, si sono conservate tutte (anche se non sempre complete). Tuttavia le didascalie si limitano a descrivere solo gli elementi più importanti delle scenografie e i cambiamenti di scena. Le spiegazioni sono prevalentemente generiche e utilizzano un codice linguistico attinto dalle fonti italiane (p.e. "luogo horrido", "bosco delizioso", "boschereccia campagna", ecc.) e a volte ambivalente (p.e. "si apre il cielo"). Mancano del tutto indicazioni tecniche e informazioni sul metodo del cambio di scenario, dei singoli elementi scenografici o descrizioni dei costumi. Il contenuto delle spiegazioni era definito dal carattere di queste pubblicazioni, dirette soprattutto agli spettatori. Le loro relazioni, infatti, aggiungono preziosissime puntualizzazioni. Il "critico" più importante dell’arte di Agostino Locci era indubbiamente il nunzio Mario Filonardi, vivamente interessato al "dramma in musica", il quale soggiornò in Polonia per quasi otto anni: dalla tarda primavera del 1636 all’autunno del 1643. Destinatario delle sue missive, inviate a Roma con regolarità, era un illustre conoscitore del teatro il cardinale Francesco Barberini. Pertanto tra le svariate migliaia di pagine di questo nutrito epistolario si possono trovare notizie, a volte accompagnate da un commento o descrizione "da esperto", di molti drammi musicali e spettacoli di balletto. Il tema è addirittura predominante nei rapporti "artistici" del nunzio inviati da Varsavia e Vilnius. Da questo punto di vista il valore dei diari di un altro spettatore, il cancelliere Albrycht S. Radziwill, è ben minore. Per quanto egli avesse accompagnato il principe Ladislao in Italia e veduto, insieme a lui, alcuni spettacoli "in musica" di Firenze e Mantova, le sue relazioni si fermano a qualche riflessione generale, soprattutto di ammirazione. Un valore eccezionale ha in questo contesto la relazione del segretario della regina Ludovica Maria Gonzaga, Jean de Labourer, che racchiude un’esauriente descrizione di un solo spettacolo sia dal punto di vista dei contenuti, sia delle scenografie, simile alle relazioni degli spettacoli italiani. Un valore analogo hanno anche gli appunti di uno spettatore anonimo, segnati sui margini del sommario polacco di un "dramma musicale" probabilmente durante la visione o subito dopo. Gli appunti fissano importantissimi dettagli delle scenografie, trascurati dagli autori di altre relazioni. Per alcuni spettacoli, inoltre, si sono conservati i rendiconti finanziari, purtroppo assai incompleti, relativi agli attrezzi di scena e alle stoffe usate per confezionare i costumi. Chiudono l’elenco delle fonti d’archivio alcune lettere sparse e le relazioni indirette, meno affidabili e più difficili da interpretare, che trasmettono le informazioni "per sentito dire". Queste fonti sono, come si vede, assai varie: provengono sia dagli autori degli spettacoli stessi (didascalie dei libretti e i sommari) sia da testimoni oculari (diari, lettere). Vi si possono individuare alcune notizie oggettive, prive di valutazioni o emozioni, e altre, soggettive, basate sulle impressioni. Quindi, i propositi dei creatori di questi spettacoli e le risposte degli spettatori così immortalati formano un’importantissima raccolta di informazioni, specialmente nel caso di un fenomeno tanto effimero come le rappresentazioni teatrali. La loro varietà può forse controbilanciare in qualche modo la loro incompletezza. La perdita dei progetti originali è compensata in qualche modo dalla ricchezza del materiale di comparazione: le descrizioni particolareggiate e le incisioni che illustrano le scenografie degli spettacoli italiani, i progetti originali di Bernardo Buontalenti, di Giulio e Alfonso Parigi, di Alfonso Rivalori detto Il Chenda, o di Francesco Guitti, che erano conosciuti e utilizzati da intere generazioni dei loro allievi ed emulatori. Sono preziosi in questa situazione anche i pochi trattati sul teatro pubblicati in Italia. Purtroppo risulta impossibile stabilire un elenco dei titoli utilizzati dal Locci nel suo lavoro. E’ poco probabile che egli abbia conosciuto l’opera del Sabbattini, stampata a Pesaro nel 1638, ed è praticamente impossibile che si sia ispirato, anche minimamente, al trattato di Furttenbach, dato alle stampe ad Augusta tre anni più tardi. Tuttavia, entrambe queste pubblicazioni descrivono e illustrano i metodi di costruzione della scena e delle sue strutture tecniche, nonché i metodi di realizzazione degli effetti speciali, generalmente in uso nell’Italia del primo Seicento, e perfino dell’ultimo Cinquecento, che Agostino Locci potrebbe avere conosciuto da altre fonti.
3. LE SCENOGRAFIE DOCUMENTATE DALLE FONTI D’ARCHIVIO I documenti d’archivio dimostrano che Agostino Locci progettò le scenografie di quattro spettacoli allestiti alla corte di Ladislao IV: Il Ratto di Helena, La Santa Cecilia, Narciso Trasformato e Le Nozze d’Amore e di Psiche. Se assumiamo che le ulteriori rappresentazioni degli stessi "drammi musicali" usavano le medesime scenografie, bisognerebbe ritenere Locci l’autore delle scenografie della ripetizione, con un titolo lievemente alterato, dello spettacolo Il Ratto d’Elena e del Narciso Trasformato. Per quanto indirettamente, è confermato anche il contributo del Locci alla creazione di altre due scenografie: per lo spettacolo Circe Delusa e per il balletto con l’introduzione drammatica Prigion d’Amore.
a. IL RATTO DI HELENA Il dramma in musica Il Ratto di Helena con le scenografie di Agostino Locci è stato rappresentato il 4 settembre 1636 su un palcoscenico provvisorio, eretto dall’artista nel Castello di Vilnius. A questo spettacolo si collega la prima notizia del soggiorno di Locci alla corte di Ladislao IV. Il 5 luglio 1636 il nunzio Mario Filonardi trasmise a Roma l’informazione che il re aveva impiegato un architetto che "[...] soprintende alle scene e machine, et è il signor Agostino Locci romano [...]", confermata anche da un accenno nel testo del libretto italiano, dove si menzionano "[...] le machine meravigliose e gli habiti ricchi [...]". Lo spettacolo durò cinque ore fu accolto con entusiasmo dal pubblico. Il nunzio scrisse che "[...] in universale furono lodate infinitamente le machine, mutationi di scene, e prospettive [...]". Nell’allestimento del dramma che nel testo letterario si sviluppa in 23 scene (non suddivise in atti), e un intermezzo, furono effettuati complessivamente sette cambi di scena a vista. Furono mostrati: una cupa valle tra i monti, il palazzo di Menelao, un giardino e una veduta marina con la barca di Nettuno, un delfino con i Tritoni (nell’intermezzo) e un vascello che salpa, con a bordo Paride ed Elena rapita. La scena provvisoria di Vilnius aveva le quinte girevoli, di cui testimonia la didascalia: "il theatrum gira", un fondale mutevole e una botola, da dove fuoriuscivano fumo e fiamme e da dove all’inizio dello spettacolo saltarono sulla scena delle creature infernali. Furono usate anche macchine di sollevamento non troppo complesse, che permisero di mostrare un angelo fluttuante e Giunone su un carro tirato da pavoni, nonché gli effetti pirotecnici: una saetta lanciata da Giove chiuse lo spettacolo. Filonardi lodò le scenografie che mostravano gli interni del palazzo con sei sale in infilata, e il "concilio di dei" assisi tra le nuvole, ma soprattutto lodò la scena del giardino "con quantità di fontane da un lato e dall’altro che buttavano in gran copia". Le relazioni e le didascalie pervenuteci indicano che Locci poté rappresentare sulla scena di Vilnius un interno coperto, elemento raro nella prima metà del secolo, utilizzato per la prima volta da Giulio Parigi nello spettacolo La Regina Sant’Orsola (Firenze 1625). Non è da escludere che, grazie ai congegni idraulici, dalle fontane menzionate da Filonardi zampillasse acqua vera. I mezzi più primitivi (p.e. nastri di tela colorata fatti passare dagli ugelli della fontana) probabilmente non avrebbero attirato la sua attenzione. Persino le scenografie degli allestimenti italiani ricorrevano relativamente di rado ai sistemi idraulici. Vi erano specializzati gli ingegneri di Mantova. Furono loro gli autori delle scenografie per L’Idrophica (1608), forse una delle primissime rappresentazioni teatrali, in cui gli spettatori sorpresi furono raggiunti dalle gocce d’acqua traboccanti dalle fontane sceniche. Il Ratto di Helena fu l’unico spettacolo allestito allora in Polonia per il quale – secondo la relazione del nunzio e il libretto – si intendeva far eseguire delle incisioni che illustrassero i progetti delle singole scene. Il nunzio promise di inviarle a Roma insieme al libretto del dramma. Nella biblioteca Barberini si è conservato soltanto il libretto. Quindi non sappiamo se Francesco Barberini ricevette le incisioni promesse, e nemmeno se queste furono eseguite. Nonostante numerose ricerche condotte presso le raccolte di stampe in Polonia, Italia e Lituania, fino ad oggi non sono emerse. Lo spettacolo, questa volta con il titolo Il Ratto D’Elena, fu rappresentato la seconda volta a Varsavia, il 12 febbraio 1638, nella nuova sala teatrale interna al Castello Reale, indubbiamente con le stesse scenografie di Agostino Locci, come testimoniano le note sceniche nella ristampa del sommario polacco.
b. LA SANTA CECILIA Il "dramma in musica" La Santa Cecilia fu rappresentato il 23 settembre 1637 nella nuova sala teatrale del Castello Reale di Varsavia, costruita da Locci, in occasione delle nozze di Ladislao IV con Cecilia Renata d’Asburgo. Il matrimonio del re con la figlia dell’imperatore Ferdinando II doveva essere un evento politico importante e la dimostrazione dell’appartenenza del casato dei Vasa all’èlite delle corti reali d’Europa. Nel marzo 1637 Filonardi scriveva al cardinale Barberini che Locci era "[...] l’architetto che soprintende alle scene e machine [...]". Quindi non c’è alcun dubbio sul chi fosse la persona cui Ladislao IV affidò la progettazione dei festeggiamenti che dovevano accompagnare le cerimonie nuziali richiamando il fasto delle nozze dei Medici, dei Farnese e dei Gonzaga, famosissime in tutta Europa. La Santa Cecilia è il dramma meglio documentato tra tutti qui considerati. Oltre al libretto ricco di didascalie dettagliate e al sommario polacco, completato dalle note anonime sui margini, si sono conservate alcune relazioni generiche scritte dagli spettatori presenti alla rappresentazione, nonché i conti reali che documentano le spese sostenute per gli attrezzi di scena e i costumi. La trama dello spettacolo sulla vicenda di santa Cecilia, perita per mano dei persecutori romani insieme al fidanzato Valeriano, convertito al cristianesimo, si sviluppa in cinque atti con prologo, quattro intermezzi e un finale con le caratteristiche intermediali. L’azione ha per sfondo addirittura nove scenari: la "boscareccia campagna", l’interno della casa di Cecilia, gli edifici della città "antica", le nuvole, il deserto roccioso, l’inferno, "l’anticamera" dell’inferno, il mare e l’interno di un tempio. Sembra che lo spettacolo, che durò ben sette ore e suscitò una grande ammirazione del pubblico, fosse davvero molto movimentato. Furono effettuati almeno 15 cambiamenti di scena a vista, si fece molto ricorso a congegni di sollevamento, botole, vari effetti speciali inclusi quelli pirotecnici (la saetta lanciata da Giove fracassò la statua di un dio pagano). Sopra il palcoscenico fluttuavano un angelo e gli dei Imeneo e Cupido; sui carri sospesi nell’aria apparivano Plutone, Cerere ed Elio; furono rappresentati i segni dello Zodiaco, un "consiglio degli dei", i cori angelici e le anime dei santi martiri tra le nuvole. La botola servì per mostrare le bocche dell’inferno che sprigionavano fumo e fiamme. Tutto grazie alle attrezzature tecniche del teatro del Castello, costruito da Locci e dotato di quinte girevoli, fondale mutevole e macchinari complessi. Gli spettatori ammirarono anche due trucchi tecnici: la caduta di Fetonte che a causa dell’incapacità di condurre il suo cocchio fece scoppiare un incendio cosmico, e la metamorfosi delle sue sorelle, Eliadi che, mentre lamentavano la sua morte, furono trasformate in pioppi. Nel primo trucco Locci aveva forse sfruttato l’idea di B. Buontalenti realizzata per l’allestimento di La Pellegrina (Firenze 1589): nel terzo intermezzo Apollo saltava da una grande altezza sul palcoscenico per uccidere il drago (in realtà fu gettato un fantoccio, sostituito in scena da un attore). Nella rappresentazione varsaviana il grande effetto fu ulteriormente intensificato da un repentino cambio di scena e dall’attenuazione delle luci, trucchi ripetuti anche per la metamorfosi, scenicamente più complessa. Le trasformazioni ad effetto delle persone in animali furono mostrate già dal Buontalenti (La Vedova, Firenze 1569: villici mutati in rane; La Pellegrina, Firenze 1589: ninfe trasformate in gazze). Anche Alessandro Carlo, fratello del re Ladislao IV, vide a Firenze, nel 1634, una non meglio identificata fiaba della ninfa Siringa trasformata in canna. Per queste trasformazioni veniva usata una botola in cui scompariva l’attore, mentre sulla scena compariva il relativo attrezzo di scena. E’ degna di nota anche la scena nella casa della santa, per la quale le didascalie del libretto descrivono le "[...] Stanze [...] formati in un volto di antica e ricca structura [...]", il che potrebbe indicare un interno coperto, piuttosto raro nelle pratiche sceniche dell’epoca. Una lettera del nunzio Filonardi ci informa che nel 1636 egli trasmise al re il libretto e otto incisioni del progetto per l’allestimento del dramma Sant’ Alessio, rappresentato nel 1634 a Roma, nel Palazzo della Cancelleria in onore del principe Alessandro Carlo Vasa. Il dono doveva ispirare lo scenografo reale nei suoi preparativi per lo spettacolo d’accompagnamento delle nozze del re. Le somiglianze sono indubbie. Non si può escludere nemmeno che lo stesso Locci, oltre a disporre dei disegni, abbia visto personalmente la rappresentazione romana, poco prima di partire per la Polonia. Tranne che per gli intermezzi, l’azione di entrambi i "drammi in musica" si svolge prevalentemente negli scenari di Roma "antica". Naturalmente oggi sarebbe impossibile stabilire fino a che punto le strutture architettoniche note dalle incisioni di François Collignon abbiano influito sulle scenografie di Varsavia. Tuttavia non sembra che la semplice scenografia architettonica di Sant’Alessio, che nella parte del fondale richiama la scena frons palladiana, possa davvero paragonarsi con la moltitudine di palazzi, templi e anfiteatri elencati nel libretto de La Santa Cecilia che dovevano ricreare per lo spettatore polacco l’immagine della Roma antica. Forse le somiglianze maggiori si possono trovare nelle scene finali di questi allestimenti, dove, grazie al cambiamento del solo fondale appare una scalinata del palazzo, utilizzata per esporre i corpi dei santi martiri. Poi, in entrambi gli spettacoli sul palcoscenico scendono le nuvole con i cori degli angeli e le anime dei martiri, in ginocchio. Inoltre, diversi tratti comuni si notano nel motivo centrale della composizione dei rispettivi prologhi. Nello spettacolo polacco lo spazio centrale è occupato dalla personificazione della Sarmazia, assisa su un trono di armi, soppiantando la figura della Roma che, nello spettacolo di Sant’Alessio sedeva "sopra un trofeo di spoglie". Forse Locci sfruttò anche qualche elemento della visione dell’inferno, o della radura nel bosco, mostrate a Roma durante i due intermezzi; i loro corrispettivi si ritrovano nella rappresentazione su Santa Cecilia a Varsavia. Comparando le didascalie di ambedue i libretti bisogna constatare che lo spettacolo di Varsavia è molto più movimentato. Le scenografie di Locci prevedevano molti più cambi scenici, l’uso di diversi macchinari e di tutta una serie di spettacolari effetti speciali. La rappresentazione varsaviana, articolata in cinque atti, molto più lunga dei tre atti di Sant’Alessio, offriva, del resto, allo scenografo molte più opportunità di utilizzare le tecniche sceniche barocche. Agostino Locci, al quale fu sicuramente lasciata una notevole libertà nella scelta dei mezzi d’espressione, voleva mostrare tutto il repertorio delle sue capacità tecniche in una volta. Le scenografie di Sant’Alessio non furono sicuramente l’unica fonte d’ispirazione per le scene de La Santa Cecilia. Sembra che Locci abbia attinto anche dalle tecniche sceniche maturate a Firenze, come si vede soprattutto nei dettagli. Le personificazioni dei fiumi, i cui corsi, secondo la tradizione antica, erano simboleggiati dall’acqua che si riversava dalle urne, comparivano spesso negli spettacoli del Cinque e Seicento, il più delle volte proprio nei prologhi, definendo i luoghi in cui si svolgeva l’azione oppure richiamando i paesi che avevano a che fare con il motivo della messa in scena dello spettacolo. Nelle scenografie per La Santa Cecilia Locci per due volte sfruttò un elemento molto spettacolare: una montagna mobile. Nel secondo intermezzo la montagna si spaccò inghiottendo Plutone con Proserpina rapita; nel finale entrò in scena muovendosi da sola, trascinata probabilmente dalle braccia degli uomini nascosti dentro. Il motivo di un monte con sopra, o dentro, le figure importanti per la scena, era noto grazie all’opera di Bernardo Buontalenti, come testimoniano gli allestimenti di La Pellegrina (Firenze 1589) e Il Rapimento di Cefalo (Firenze 1600). Questo motivo fu anche usato da Alfonso Parigi nelle scenografie de La Flora (Firenze 1628). La Santa Cecilia è l’unica rappresentazione per la quale si sono conservati i documenti d’archivio che permettono di ricostruire almeno in parte i costumi e di identificare gli attrezzi di scena. Però queste fonti indicano soltanto il costo dei singoli costumi e il tipo, il colore e la lunghezza delle stoffe usate per confezionarli.
c. NARCISO TRASFORMATO La "favola pastorale" del Narciso Trasformato fu rappresentata il 3 maggio 1638 nel teatro del Castello Reale di Varsavia in occasione della conclusione della sessione primaverile del parlamento. Grazie al nunzio Filonardi sappiamo che "l’architetto Locci Romano, e Musici habbin’ in ordine una Comedia in [...] musica con intermedii, mutationi di scene, e machine conform’ all’altre fatte qui alle nozze Reali, et in Lithuania". Le fonti ci offrono tuttavia un quadro molto generico delle scenografie approntate per lo spettacolo. Durante lo spettacolo, suddiviso in cinque atti e quattro intermezzi, ci furono soltanto sei cambi totali di scena. Furono mostrati quattro differenti scenari: una veduta cittadina, una marina, la "fucina di Vulcano" e una radura nel bosco, la più frequente soluzione scenografica. Sembra che fosse parecchio sfruttato il macchinario di sollevamento che servì per introdurre in scena Apollo, Venere che in ogni scena era alla ricerca di suo figlio Cupido, e degli dei antichi tra le nuvole. Nella rappresentazione furono anche adoperati effetti di tuoni e fulmini, già ammirati nelle rappresentazioni teatrali precedenti. Il fuoco accompagnò anche la scena della fucina di Vulcano. Forse fu usato anche l’effetto della fluttuazione delle luci. La scena madre, quella della metamorfosi cui si riferisce il titolo, mostrata nell’ultimo atto, probabilmente sarà stata svolta in modo identico a quello del "dramma musicale" di santa Cecilia. Particolarmente spettacolare sarà stato il finale in cui, grazie ai congegni di sollevamento, sul palcoscenico apparve una piramide-obelisco e Cupido che la "scalava", alludendo all’iconografia ufficiale del re. L’altezza della piramide-obelisco permise un’ulteriore illusione: il suo finto marmo fu decorato con i bassorilievi che illustravano le vittorie del re. Sembra che, rispetto alle due precedenti rappresentazioni teatrali, il dramma del Narciso sia stato accompagnato da scenografie alquanto modeste. Lo testimonierebbero le didascalie concise e la trama, poco spettacolare, del libretto stesso. Tuttavia l’allestimento scenico doveva essere sufficientemente impressionante se il nunzio, presente allo spettacolo, qualche giorno dopo poté scrivere a Roma che: "Riuscì il tutto in perfettamente però nella [testo illeggibile] prospettive delle scene, machine e balletti, quest’ ha superato l’altre [...]" Anche in questo allestimento Locci sfruttò la pratica scenica italiana. La descrizione delle scenografie architettoniche del prologo che mostravano la veduta cittadina con la fuga prospettica delle strade rammenta l’incisione di un progetto di B. Buontalenti per uno spettacolo non identificato e un’altra scenografia, su di esso modellata, di Giulio Parigi per il dramma Il Solimano (Firenze 1619). Di particolare rilievo è il terzo intermezzo, la cui azione si svolgeva nella fucina del Vulcano che, aiutato dai Ciclopi, forgiava uno scudo per il re. Il contenuto di questa scena richiama da vicino un motivo del quinto intermezzo dello spettacolo Il Giudizio di Paride (Firenze 1608, scenografie di Giulio Parigi), dove sullo sfondo di un labirinto di grotte, avvolto dal fumo e fiamme, furono mostrati il dio Vulcano e i Ciclopi mentre forgiano le armi per il futuro principe di Toscana al quale era dedicata la rappresentazione. A causa di una malattia il re non poté presenziare alla prima del Narciso Trasformato. La rappresentazione fu ripetuta il 13 giugno 1638, certamente con le stesse scenografie progettate da Agostino Locci.
d. LE NOZZE DI AMORE E DI PSICHE Il "dramma in musica" Le Nozze di Amore e di Psiche, fu presentato a Danzica su una scena provvisoria il 16 febbraio 1646 in occasione dell’ingresso solenne in città della seconda moglie di Ladislao IV, Ludovica Maria Gonzaga. Sappiamo che Agostino Locci fu autore delle scenografie da una lettera del re a lui indirizzata e dal diario del segretario della regina, Jean de Laboureur, che, insieme al libretto, rimane l’unica fonte di notizie sulle scenografie dell’allestimento. La rappresentazione della fiaba su Amore e Psiche durava cinque ore ed era suddivisa in tre atti. Il libretto, poco movimentato e privo di intermezzi, non offriva allo scenografo molte occasioni per brillare. Anche la costruzione di una scena provvisoria destinata ad un solo spettacolo limitò forse le sue possibilità. Con ogni probabilità Locci vi costruì delle quinte girevoli completate da un fondale mutevole e vi installò un congegno di sollevamento. Tuttavia l’allestimento prevedeva soltanto due cambiamenti totali di scena, più spesso mutava invece il fondale, mostrando ora la veduta del palazzo dell’Amore, ora una rupe. Vi furono solo tre scenari: una scena pastorale, il tempio di Venere e il palazzo di Tersandro. Si fece un ripetuto ricorso all’argano che sollevava efficacemente sia Venere su un carro trainato da quattro colombi, sia Mercurio, Amore e Psiche. Due volte tra le nuvole apparvero gli dei dell’Olimpo. Indubbiamente di grande effetto fu il prologo che vide una nuvola che si spaccava mentre, contemporaneamente, sul palcoscenico discendeva la "Impresa della Casa Gonzaga". Sicuramente il palcoscenico di Danzica aveva una botola. Nel primo atto, dall’abbondante fuoco e fumo sprigionati dalla botola saltarono fuori "Furore e Sdegno". Anche i fumi, le fiamme e il fulmine costituirono gli unici effetti speciali usati nello spettacolo. La sua attrazione più grande fu, senza dubbio, il balletto delle cinque aquile – una bianca dello stemma polacco e quattro nere del casato dei Gonzaga – mostrato nella scena finale. Gli uccelli, cavalcati da cinque amorini, si muovevano al ritmo della musica sospesi da sottili, quasi invisibili fili metallici. Un’idea senza precedenti per la scenografia del primo barocco, la cui realizzazione avrà sicuramente richiesto la costruzione di un apposito marchingegno. Sembrerebbe che per Le Nozze di Amore e di Psiche l’artista abbia fatto un ricorso limitato alle idee altrui, basandosi soprattutto sull’esperienza propria e ripetendo i motivi presi da realizzazioni precedenti.
e. CIRCE DELUSA Il "dramma in musica" Circe Delusa fu rappresentato con notevole ritardo a Vilnius il 16 aprile 1648, per onorare l’ingresso solenne della regina Ludovica Maria Gonzaga in città. Dalle fonti risulta che alcune attrezzature tecniche fisse della scena teatrale di Varsavia furono appositamente trasportate a Vilnius, e che l’impresa fu assai costosa. Probabilmente Agostino Locci si recò in Lituania con questo trasporto. Già a dicembre dell’anno precedente egli aveva nuovamente eretto nel Castello di Vilnius la scena provvisoria menzionata nell’epistolario del re. L’unica fonte su cui possiamo basarci per ricostruire le scenografie di questa rappresentazione è il testo italiano del libretto. Il dramma si riallaccia al X libro dell’Odissea e racconta del fallimento della maga Circe nel sedurre Ulisse. I tre atti del dramma erano separati da due intermezzi che, per quanto poco connessi con la trama principale, la completavano e arricchivano visivamente lo spettacolo. La rappresentazione prevedeva almeno tre scenari: la predominante "boscareccia campagna", la veduta marina e la grotta infernale. Le definizioni "si cangia la scena" sembrano suggerire che sulla scena provvisoria di Vilnius Locci abbia costruito delle quinte girevoli che, come anche il fondale mutevole, permisero di effettuare sei cambi scenici completi. Più volte fu utilizzato un apposito congegno per sollevare sopra il palcoscenico Amore, Mercurio, Minerva su un carro, il Sole su un cocchio trainato dalle Ore e, infine, Titone e Aurora. Nel finale apparvero anche gli dei tra le nuvole. Le più spettacolari erano le scene del prologo e del terzo atto del dramma. Nel prologo furono mostrati Titone che riposa sulle nuvole e Aurora fluttuante accanto, nell’atto di annunciare il nuovo giorno, sottolineato dal sorgere del Sole sulla scena. La rappresentazione scenica dell’Aurora si richiamava forse all’eroina de Il Rapimento di Cefalo (Firenze 1600, scenografia di B. Buontalenti), dove su una nuvoletta compariva una giovane donna con le ali dorate, ricoperta di fiori, con una veste bianca e rossa e un mantello mosso dal vento. Analogamente si presentava la dea dell’aurora di Giulio Parigi nello spettacolo Notte d’Amore (Firenze 1608). In entrambe le rappresentazioni fiorentine su una nuvola accanto a quella della dea fluttuava Titone, suo sposo. Queste scene, come nella Circe Delusa, erano accompagnate da una graduale intensificazione delle luci di scena. Dovevano impressionare non poco le magie di Circe, presentate nel terzo atto: un temporale con pioggia, grandine, lampi e tuoni e un terremoto erano gli elementi più impressionanti dello spettacolo. Un temporale, arricchito di effetti luminosi e acustici, fu mostrato da Giulio Parigi nella rappresentazione La Flora (Firenze 1628). Gli spettatori di Aminta (Parma 1628)/215 ammirarono un uragano con la tempesta marina e il terremoto, riprodotti sulla scena. Il creatore di quella scenografia, Francesco Guitti, avrebbe ripreso quel motivo un’altra volta, nella rappresentazione romana di Erminia sul Giordano (Roma 1633), che Locci poteva avere visto prima di partire per la Polonia: le luci si attenuavano, cominciava a soffiare il vento, cadeva la pioggia e poi la grandine. L’allestimento di questo spettacolo è l’ultimo lavoro scenografico di Agostino Locci per i "drammi in musica" confermato dalle fonti d’archivio, e probabilmente uno degli ultimi impegni importanti per la sua carriera d’ingegnere teatrale.
f. PRIGION D’AMORE Il balletto con l’introduzione drammatica Prigion d’Amore, messo in scena il 15 settembre 1637 nel Castello Reale di Varsavia, fu lo spettacolo che aprì i festeggiamenti per le nozze del re Ladislao IV con Cecilia Renata. Per quanto nessuna fonte d’archivio nomini Agostino Locci quale creatore delle scenografie per quell’allestimento, rimane indubbio che l’autore doveva essere proprio lui. Secondo le informazioni inviate a Roma dal nunzio Filonardi sei mesi prima, Agostino Locci doveva essere l’autore di tutti gli spettacoli organizzati nell’ambito del matrimonio reale, tra i quali figurava anche il balletto. Questa attribuzione è confermata soprattutto dalla somiglianza del macchinario teatrale utilizzato – l’elemento principale dell’allestimento, la cui realizzazione necessitava delle capacità ingegneristiche – con il congegno usato nello spettacolo La Santa Cecilia, le cui scenografie erano sicuramente l’opera dell’artista, come confermano le fonti archiviali. Lo spettacolo Prigion d’Amore aveva tutti i tratti caratteristici del balletto italiano del Seicento, ai limiti del campo del "dramma in musica" grazie all’uso dell’apparato scenico. Data la partecipazione diretta della famiglia reale e dei cortigiani, dal punto di vista dell’etichetta la rappresentazione fu l’elemento principale dell’agenda dei festeggiamenti nuziali. Conosciamo le sue scenografie da tre fonti: il testo stampato dell’introduzione e le relazioni delle nozze reali. Dal testo dell’introduzione risulta che il balletto si svolse in un ambiente non ancora identificato (la sala teatrale nel Castello non era ancora pronta) in cui fu installata una macchina semovente a forma di torre che ospitava la prigione dell’amore del titolo. In cima alla torre era posto Amore che muoveva le ali marcando il volo. Fermata la macchina, la porta della torre si aprì mostrando un "dilitioso giardino" nascosto all’interno, da cui uscì la dea Venere e dieci danzatrici. Una relazione dell’epoca racconta che le prigioniere erano abbigliate con le bianche, anticheggianti vesti degli abitanti dell’antica Frigia e Attalia. La macchina semovente usata nell’introduzione drammatica del balletto era indubbiamente la stessa che qualche giorno dopo sarebbe stata utilizzata nel "dramma musicale" La Santa Cecilia.
4. LE SCENOGRAFIE IPOTIZZATE Fino al 1646 nessun documento d’archivio dell’epoca di Ladislao IV menziona altri ingegneri e scenografi di teatro del re, tranne Agostino Locci. L’alta considerazione di cui godeva a corte ci permette di assumere che anche gli allestimenti di altri spettacoli messi in scena durante il decennio successivo all’anno 1636 fossero opera sua. Tali supposizioni trovano conferma nell’utilizzo di certe ideazioni e motivi scenici che si riscontrano nei lavori del Locci documentati dalle fonti. Sembra che si possano attribuire a lui anche alcuni spettacoli il cui titolo ci è ignoto che – come testimoniano le fonti – furono allestiti ricorrendo a cambi di scena e macchine teatrali.
a. ARMIDA ABBANDONATA Il dramma in musica Armida Abbandonata fu rappresentato nella sala teatrale del Castello di Varsavia l’8 febbraio 1641. Il giorno dopo Filonardi scrisse che nello spettacolo era notevole lo "[...] splendore degli habiti, machine et intermedi [...]", e queste osservazioni costituiscono, oltre al libretto italiano, l’unica fonte di notizie sulle scenografie adoperate. La trama del dramma in tre atti verte sull’infelice amore della maga Armida per il cavaliere Rinaldo, e sulla lotta tra l’Amore Lascivo e l’Amore Celeste. Le ambivalenti note sceniche permettono soltanto di supporre che nel corso della rappresentazione siano stati effettuati almeno sei cambi scenici e mostrati cinque diversi scenari: il mare, la "boschereccia campagna", il "luogo horrido", il giardino con una sorgente e la scena infiammata. Fu cambiato più volte il fondale con le vedute della rotonda dorata del palazzo di Armida, del mare con Rinaldo che si allontana dalla riva, probabilmente, della dimora distrutta della maga. Almeno due volte fu utilizzata la botola di scena, ad imitazione dell’abisso infernale da dove emergevano, fra fumi e fiamme, le figure dell’Amore Lascivo e della Gelosia per poi precipitarvi rovinosamente. Più volte si fece ricorso al marchingegno per sollevare e abbassare i protagonisti del dramma: il carro di Armida, l’Amore con il coro delle virtù e la nuvola con l’Aurora circondata dai Zeffiri. Dovevano essere impressionanti le scene della danza fantasmagorica delle apparizioni e la tempesta che subito dopo chiudeva il primo atto. Locci avrebbe mostrato una tempesta con tuoni e lampi che squarciano l’oscurità sette anni dopo, sulla scena provvisoria di Vilnius, nel dramma Circe Delusa (1648). La tempesta appare anche nell’Enea, la rappresentazione considerata qui di seguito. Le scene centrali del secondo atto furono sicuramente molto dinamiche: prima sulla scena divamparono le fiamme, poi ritornò lo scenario della radura idilliaca nel bosco per mutarsi, dopo un momento, in un "[...] giardino con un’ fonte, per entro di esso quattro sirene". Purtroppo non sappiamo come fu ottenuto l’effetto del fuoco. Possiamo solo supporre che, come nelle altre scenografie del Locci, fosse segnalato da fumi e lampi di luce, completati, secondo le indicazioni del Sabbattini, da un fuoco vero dei lumi che brillavano dietro il fondale. Le "fiamme e fumi" simili accompagnarono probabilmente anche la scena dell’abisso infernale nel dramma dell’Armida. Le attrezzature fisse della scena teatrale di Varsavia, dove lo spettacolo fu allestito, permettevano di sfruttare tutti questi effetti spettacolari e i cambi di scena a vista.
b. L’ENEA Il dramma musicale L’Enea fu messo in scena nella sala teatrale del Castello Reale di Varsavia il 9 ottobre 1641 per festeggiare l’omaggio al re Ladislao IV reso dall’elettore brandenburghese Federico Guglielmo Hohenzollern. Delle scenografie del dramma in tre atti, la cui rappresentazione durò quattro ore, sappiamo soltanto dai commenti didascalici del libretto. Vi furono quattro scenari: la veduta della città, la radura nel bosco, un porto marino e il palazzo di Didone. Furono effettuati quattro cambi di scena totali e qualche cambiamento del solo fondale che mostrava l’interno di una sala del palazzo della regina cartaginese. Le macchine di sollevamento più volte innalzarono sopra le scene le figure degli dei: Mercurio, Giunone, Venere, Aurora e Giove. Un punto saliente di particolare attrattiva fu anche una tempesta, come quella mostrata in precedenza nel dramma di Armida Abbandonata. Spiccano per originalità due scene. Nel prologo una nuvola si apriva lentamente mostrando la veduta panoramica di Cracovia con la storica scena dell’omaggio della Prussia alla Polonia, uno dei pochi motivi "polacchi" del teatro dell’epoca di Ladislao IV. L’idea stessa di presentare una veduta nel prologo o in una delle prime scene della rappresentazione teatrale compariva molto spesso nel teatro italiano, per esempio nei progetti di Bernardo Buontalenti e Giulio Parigi. Un’idea analoga di far aprire le nuvole per svelare la scena del prologo fu sfruttata dallo scenografo reale nell’allestimento del dramma Le Nozze di Amore e di Psiche. Spettacolare fu anche la scelta del finale: dal sottopalco emerse un obelisco con Amore che vi si arrampicava. Soluzione simile era stata adottata in precedenza per il Narciso Trasformato. La rappresentazione delle sorti di Enea era indirizzata non solo al pubblico polacco, ma anche all’ospite prussiano che avrebbe dovuto lasciare Varsavia persuaso dell’altissimo livello raggiunto dal teatro reale. Sicuramente il monarca non avrebbe affidato il progetto tanto importante a nessun altro scenografo, e Locci fu allora all’apice della sua carriera di ingegnere del teatro di corte.
c.L’ANDROMEDA Il dramma "in musica" L’Andromeda fu messo in scena il 6 marzo 1644, durante il soggiorno della corte reale a Vilnius. L’azione si sviluppava in tre atti, richiamando le vicende della principessa di pelle nera salvata da Perseo dalle grinfie della vendicativa Anfitrite, raccontate da Ovidio nelle Metamorfosi (Libro IV). Disponiamo solo dei commenti didascalici del libretto e del sommario, singolarmente scarni, per ricostruire le scenografie adoperate nella rappresentazione. Lo spettatore abituale e critico attento del teatro, nunzio Filonardi, aveva lasciato per sempre la Polonia nell’autunno del precedente anno 1634. Furono attuati probabilmente appena quattro cambi scenici e, in più, un solo cambio di fondale, di contenuto ignoto. Furono mostrati tre scenari: la veduta marina, il palazzo reale, l’interno del tempio di Amon. La macchina di sollevamento fu utilizzata due volte, per Perseo e per Amore; non furono utilizzati altri effetti scenici. Dal punto di vista delle scenografie questo fu uno degli allestimenti più modesti approntati per l’iniziativa del re. Sembra che la scena provvisoria di Vilnius non offrisse molte opportunità allo scenografo, il quale, tuttavia, l’aveva dotato del sistema di quinte girevoli e del fondale. Anche la trama dello spettacolo, con soli tre luoghi d’azione, e l’assenza di intermezzi, lasciarono poco spazio all’inventiva. Sicuramente di maggiore effetto fu il finale: la lotta con la mostruosa Medusa. E’ un motivo noto alle scene fiorentine. Nel famoso terzo intermezzo della pièce La Pellegrina (Firenze, 1589), intitolato La vittoria di Apollo sul serpente Pitone, Bernardo Buontalenti aveva mostrato un drago alato, dal quale Apollo liberava gli abitanti di Delfi. Il mostro era fatto di cartapesta su uno scheletro d’acciaio, aveva la lingua incandescente e lanciava fiamme dalle fauci. Le fattezze di questo drago erano note da un disegno di Buontalenti e dall’incisione di A. Carracci. Tuttavia non sappiamo se e fino a che punto l’autore della rappresentazione di Vilnius abbia sfruttato quest’idea. La "bestia marina" mostrata nell’Andromeda era probabilmente costruita analogamente, in un modo che permettesse di farla muovere come una marionetta. Per realizzarla servivano le conoscenze teoriche e pratiche dell’officina di ingegneria meccanica. Forse sulle scenografie di questa rappresentazione influì l’allestimento ferrarese di un dramma dallo stesso titolo, realizzato da Francesco Guitti nel 1639 e riprodotto sulle incisioni conosciute all’epoca. Lo scenografo della corte polacca probabilmente conosceva le soluzioni accluse al libretto, che uno degli artisti di corte poteva aver portato dall’Italia. Nel 1644 Agostino Locci continuava a far parte dell’èlite artistica della corte reale. Era impegnato nella realizzazione dei progetti edilizi più importanti per conto del monarca e quindi è poco probabile che Ladislao IV abbia affidato ad altri il progetto delle scenografie per L’Andromeda.
d. L’AFRICA SUPPLICANTE Il balletto L’Africa Supplicante fu inscenato il 14 febbraio 1638 nella sala teatrale del Castello Reale di Varsavia. Fu una delle più spettacolari rappresentazioni mai viste sul palcoscenico di corte. Ne testimoniano il testo dell’introduzione drammatica e la relazione molto dettagliata del nunzio Filonardi, chiaramente incantato dalla ricchezza "orientale" dei costumi che, al pari dell’enorme elefante semovente, furono la più grande attrazione dello spettacolo. Al centro del palcoscenico, sullo sfondo di un vasto paesaggio, fu posto un elefante di grandi dimensioni (intorno ai 2 m di lunghezza e 1 m di larghezza). Sul dorso dell’animale sedeva la personificazione dell’Africa con una maschera nera sul volto e la veste d’oro. L’elefante muoveva la testa e la proboscide e più volte si inginocchiò dinnanzi al re, alla corte e al nunzio. Nel proseguimento dello spettacolo il fondale che mostrava un vasto paesaggio descritto come "vago e dilettevole" mutò. Sulla scena apparvero dodici ballerine africane con le maschere nere sul volto e le torce accese in mano. Le "africane" vestivano i costumi di raso nero guarnito con broccato d’oro e i fiori dorati. Alla vita avevano delle fasce con le stesse guarnizioni, che scendevano lungo le gonne. Al collo portavano lunghe collane di grandi perle. In testa le danzatrici portavano dei veli di seta intessuta d’oro con le ghirlande che scendevano lungo la schiena; i loro costumi dovevano creare l’effetto di un’opulenza orientale "autenticamente barbara". Per tutta la durata dello spettacolo – e il divertimento durò svariate ore – l’elefante rimase sulla scena muovendo le zampe, la testa e la proboscide. L’elefante era frequente negli intermezzi teatrali e nelle celebrazioni parateatrali del rinascimento italiano. Non sappiamo se nello spettacolo polacco esso fu l’opera di una complessa arte d’ingegneria – il che sembrerebbe confermare la partecipazione di Agostino Locci alla produzione delle scenografie di questa rappresentazione – oppure se degli uomini nascosti all’interno della bestia ne animassero i movimenti, facendogli fare gli inchini, muovendo la sua testa, ecc. All’epoca dell’allestimento di questo spettacolo Locci cominciava i preparativi per mettere in scena il Narciso Trasformato, le cui scenografie sono opera sua, documentata da fonti sicure. Non v’è alcun motivo per pensare che il re si sia rivolto ad un altro artista per il progetto dei costumi e delle scenografie di questo balletto.
e. LA MAGA SDEGNATA Il balletto con l’introduzione drammatica La Maga Sdegnata, messo in scena nel teatro del Castello varsaviano il 18 febbraio 1640, fu il principale evento artistico del carnevale. Il contenuto ci è noto dal testo dell’introduzione, munito di ampi commenti di scena. Le scenografie avevano un ruolo molto più importante del testo o delle coreografie, a cui la pubblicazione non accenna nemmeno. L’uso delle macchine teatrali e degli effetti di luce e la gestione del fondale, ovvero i mezzi applicati nelle forme evolute del teatro dell’epoca, hanno reso questo balletto formalmente più simile ad un dramma musicale minore. Però il nunzio, presente alla rappresentazione, in una lettera inviata a Roma lasciò solo un breve accenno al balletto, di cui ricordava soprattutto i costumi delle danzatrici. La trama dell’introduzione drammatica verteva sulle magie di Anfesibene, che aveva imprigionato in una roccia dieci regine, poi liberate grazie all’intervento divino che si oppose alle forze della magia malefica. Grazie al breve appunto del nunzio sappiamo che le ballerine erano di statura uguale, che portavano identici, sontuosi costumi e che i loro volti erano celati dietro le maschere di cera finemente eseguite e appena percettibili. Durante lo spettacolo fu effettuato un solo cambio totale di scena; ci furono due scenari: un luogo roccioso con una rupe in mezzo, da cui uscirono le dieci regine prigioniere in catene, e l’interno di una sala del palazzo che, secondo le indicazioni del libretto, doveva essere un ambiente coperto ("sala in volta"). Lo scenografo ha usato anche una macchina che gli permise di far apparire in scena il carro di Giunone. L’effetto maggiore fu però ottenuto abbassando e alzando gradualmente l’intensità d’illuminazione. Non sappiamo come fosse stata ottenuta l’eclissi solare menzionata nel libretto. Forse a tale fine si utilizzò il congegno detto "il cielo spezzato", grazie al quale delle nuvole mobili gradualmente ricoprivano un disco luminoso, abbassando contemporaneamente l’illuminazione scenica. E’ difficile stabilire se questo fenomeno fosse accompagnato da "fulmini, lampi e tempeste" menzionate dal libretto, di cui tacciono però le didascalie. Questi effetti avrebbero indubbiamente aumentato l’attrattiva dello spettacolo, obiettivo indiscusso del divertimento carnevalesco. La ricchezza dei mezzi scenici adoperati, molto simili ad altri lavori di A. Locci confermati dalla documentazione d’archivio, ci induce a includere questo allestimento nell’elenco delle sue opere. Abbiamo già parlato dell’idea, inconsueta per il periodo della prima metà del XVII secolo, di ambientare una scena al chiuso (secondo i commenti al libretto per il balletto La Maga Sdegnata), nell’analizzare le scenografie attribuite al Locci da fonti d’archivio per due spettacoli: Il Ratto di Helena e La Santa Cecilia. Anche gli effetti di luce e della tempesta, arricchita dall’effetto di grandine e terremoto, noti dalle rappresentazioni Circe Delusa e Armida Abbandonata, richiedevano allo scenografo grandi competenze pratiche e teoriche.
f. I "DRAMMI MUSICALI" E I BALLETTI CON L’INTRODUZIONE DRAMMATICA DAL TITOLO IGNOTO Sembra che all’elenco delle opere scenografiche di Agostino Locci si possano aggiungere alcuni spettacoli di contenuti e persino titoli sconosciuti, allestiti utilizzando le tecniche di scena barocche nel teatro reale di Varsavia negli anni 1641-1646. Queste rappresentazioni sono menzionate nelle lettere del nunzio Filonardi e nel diario del principe Albrycht S. Radziwill. Si tratta di un balletto con l’introduzione drammatica "in musica" messo in scena nel giugno del 1641 durante i festeggiamenti per le nozze della sorella del re, Anna Caterina Costanza, con il principe Filippo Guglielmo di Neuburg, e di un altro spettacolo di balletto con l’introduzione drammatica, rappresentato l’anno successivo, in cui fu mostrata una battaglia delle Amazzoni mentre sopra il palcoscenico fluttuava Cupido.
g. GLI SPETTACOLI MESSI IN SCENA NEL 1635
Nel 1635 furono rappresentati due "drammi in musica", i primi di questo genere messi in scena durante il regno di Ladislao IV. Il livello relativamente alto di queste realizzazioni scenografiche e le soluzioni in esse adottate, analoghe a quelle ricorrenti nei lavori successivi dell’artista, la cui permanenza in Polonia è confermata dalle fonti solo a partire dall’anno 1636, giustificano l’inserimento di questi spettacoli tra le opere di Agostino Locci nonostante la mancanza delle conferme documentali.
KRÓTKIE ZEBRANIE HISTORYJEJ Z PISMA SWIETEGO O JUDYCIE (BREVE RACCONTO DELLA STORIA DI GIUDITTA TRATTA DALLE SACRE SCRITTURE) Solo grazie al sommario polacco conosciamo il titolo dello spettacolo “in musica”, Krótkie zebranie historyjej z Pisma Swietego o Judycie, che fu messo in scena a Varsavia il 4 maggio 1635, in concomitanza con la visita degli ambasciatori moscoviti, sette anni dopo la prima rappresentazione polacca del "dramma in musica" che raccontava l’amore di Aci e Galatea, allestito nella capitale nel 1628. Lo spettacolo mostrava le vicende dell’assedio della città ebraica di Betulia dagli eserciti assiri guidati da Oloferne e la vittoria degli assediati grazie al tranello teso al nemico dalla protagonista del dramma. Non conosciamo come il dramma fu suddiviso in atti, non considerati nel sommario. Nella rappresentazione furono effettuati sei cambi di scena completi, utilizzando quattro scenari: la veduta del bosco, le vie di Betulia, l’inferno e il campo degli assiri con la veduta della città sul fondo. La macchina di sollevamento, probabilmente una semplice leva a gru di facile manovra, fu impiegata una sola volta, alla fine dello spettacolo, per innalzare nel cielo la personificazione della Preghiera. La scena provvisoria aveva un prospetto scenico che celava le quinte girevoli; la completavano un fondale apribile ai lati e una carrucola. Aveva anche una botola dalla quale, nell’intermedia scena "infernale", tra fumi, fiamme e serpenti striscianti emerse un grande diavolo che reggeva altri diavoli più piccoli e, successivamente, sei altri mostri e, per finire, un mostro con le mascelle di leone che sputavano fuoco, tra le cui fiamme era visibile Lucifero. Da tempo è stata rilevata una parentela letteraria tra la storia di Giuditta e il dramma in musica dedicato al principe Ladislao a Firenze nel 1625, La Regina Sant’Orsola. Il libretto munito di sei incisioni che riproducevano le scene del dramma, pubblicato a Firenze nello stesso anno, era conservato nella biblioteca del principe. Non si può escludere che, ormai da re, Ladislao IV abbia mostrato al suo scenografo i progetti di Alfonso Parigi per ispirarlo. Comunque, la somiglianza tra i due allestimenti è, tutto sommato, abbastanza generica e limitata all’idea di mostrare la veduta delle città assediate (rispettivamente Colonia e Betulia) sullo sfondo, quale elemento dominante la scena. Non vi sono invece analogie nella realizzazione delle spettacolari scene infernali che, nella messa in scena varsaviana, si avvicina piuttosto al progetto di Bernardo Buontalenti per il quarto intermezzo della pièce La Pellegrina, in cui fu mostrata una piramide di diavoli che emergevano dalle bocche dell’inferno. Non conosciamo il luogo della rappresentazione delle vicende di Giuditta. Probabilmente avvenne in una delle sale del Castello, dove fu approntata una scena provvisoria fornita di macchinari di scena. Il primo spettacolo prodotto per iniziativa di Ladislao IV nello stile del "dramma in musica" di gran moda doveva però essere riuscito abbastanza imponente, visto che G.B. Tartaglini, segretario del Granduca di Toscana, annotò nella sua relazione di avere guardato "con molta meraviglia" il "cambiamento di scene" e gli "abiti apparentii", ovvero le meraviglie tipiche per quel genere di spettacoli. Le scenografie dovevano quindi essere opera di un professionista che, tuttavia, disponeva di pochi mezzi tecnici. Infatti, sembra che l’allestimento fosse molto più povero rispetto allo spettacolo del 1628.
DAFNIS PRZEMIENIONA W DRZEWO BOBKOWE (DAFNIS MUTATA IN ALBERO D’ALLORO) La "favola in musica" sulle sorti di Dafne che, fuggendo da Apollo, si trasformò in un albero d’alloro, fu messa in scena per la chiusura dei lavori del Parlamento il 10 dicembre 1635. Analogamente al Breve Racconto della Storia di Giuditta, anche questa rappresentazione è conosciuta grazie soprattutto alle informazioni del sommario polacco che però non indica la suddivisione in atti. Nel corso della rappresentazione furono effettuati solo due cambi di scena mostrando due scenari: pastorale e marino. Arricchivano le scenografie le figure dell’Eos con quattro Zeffiri, di Venere su un cocchio d’oro e di Cupido, sospesi sopra la scena. Doveva impressionare, e molto, la mirabolante trasformazione di Dafne in un albero che emerse lentamente dal sottopalco mentre l’eroina del dramma si nascondeva all’interno. Questo momento saliente dello spettacolo, omesso del tutto nella sceneggiatura, è noto dalle relazioni di due spettatori. Fu la prima trasformazione del genere, mostrata nel teatro polacco. La successiva, ovvero la trasformazione delle sorelle di Fetonte in pioppi, sarebbe stata vista dagli spettatori polacchi solo nel 1637, alla prima dello spettacolo La Santa Cecilia. Bisogna sottolineare una somiglianza molto forte di una scena intermediale che presenta la veduta del mare con dio Nettuno in mezzo alle onde sul dorso ad una balena, circondato da Tritoni e ninfe, presente in entrambe le rappresentazioni. Il finale doveva suscitare un notevole interesse nel pubblico, incuriosito dalla discesa sulla scena di una grande palla, la "Machina Mundi" su cui sedevano i rappresentanti delle nazioni vinte dal re polacco e la Fortuna protettrice del re. La scena si riallaccia chiaramente al finale del dramma di Aci e Galatea, messo in scena su richiesta del principe Ladislao Sigismondo nel 1628. Allora su "Machina Mundi" scese la personificazione dell’Eternità che elencava i nomi delle terre sotto il dominio di Sigismondo III. Un richiamo così testuale alla "favola pescatoria" del 1628, dalla quale poco più tardi saranno mutuati anche la figura della Sarmazia per il prologo della Santa Cecilia e gli incubi notturni mostrati nel primo atto di Armida Abbandonata, difficilmente poteva essere frutto di un caso. Bisogna supporre che sul contenuto dello spettacolo su Dafne abbia influito il committente reale. Il luogo di questa rappresentazione rimane sconosciuto, come del resto nel caso della storia di Giuditta. Forse entrambi gli spettacoli furono allestiti nella stessa sala, sulla stessa scena provvisoria. Le scarne notizie del sommario indicano non solo il ricorso alle carrucole, ma anche alla botola, indispensabile per effettuare la trasformazione della ninfa. Non si sa se in questa messa in scena furono utilizzate le quinte girevoli, per quanto indubbiamente le decorazioni riempivano non solo lo sfondo, con un fondale mobile cambiato due volte, ma anche i lati del palcoscenico. La scena doveva inoltre essere racchiusa in un prospetto scenico e munita del sottopalco con botola, del retropalco e della graticcia, che nascondevano le attrezzature e i macchinari. L’alto livello di queste scenografie, considerata la provvisorietà delle strutture e il carattere pionieristico del lavoro, è stato debitamente notato nel secolo XX da uno studioso del teatro polacco che ha attribuito proprio ad Agostino Locci il progetto di questo allestimento.
III. OPERE ARCHITETTONICHE Rispetto a quella scenografica, l’opera architettonica di Agostino Locci sembra piuttosto modesta. Bisogna ritenere che, quale uno dei principali architetti di corte, egli fosse stato impiegato in tutta una serie di iniziative edilizie e ingegneristiche di Ladislao IV, però, a causa della scarsità delle fonti documentali non sappiamo in quale misura.
1. LE OPERE DOCUMENTATE DALLE FONTI a. Il RIFACIMENTO DEL CASTELLO REALE E DELLA ZONA CIRCOSTANTE TEATRO DEL CASTELLO Il matrimonio di Ladislao IV con Cecilia Renata d’Asburgo nel 1637 fu un’ottima occasione per ristrutturare e rimodernare le residenze reali. Sappiamo che Locci partecipò in qualche modo all’ammodernamento delle sale del Castello e della residenza suburbana del re, la Villa Regia, dove aveva riordinato i giardini e progettato la sistemazione nel parco delle sculture, proprio allora importate da Genova. Tuttavia l’impresa più importante del periodo fu la collocazione di una sala teatrale nello spazio del secondo e terzo piano dell’ala meridionale del Castello, dove poi, il 23 settembre 1637, si svolse la prima del "dramma in musica" La Santa Cecilia, inaugurando il teatro in occasione delle nozze del re. Purtroppo, non si è conservata alcuna immagine iconografica dei progetti decorativi della sala; il suo aspetto può essere dedotto soltanto dalle fonti d’archivio che ci confermano che fu proprio Agostino Locci l’autore del progetto architettonico degli interni e delle attrezzature tecniche. L’artista firmò l’elenco, conservatosi, dei lavori eseguiti per la realizzazione del teatro di corte, con la seguente nota: "Io Agostino Locci affermo tutto quello ordinato da me". Il suo nome è menzionato nel libretto dello spettacolo d’inaugurazione: "L’invenzione e direttione delle machine e ogni altra cosa del theatro è stata del Signore Agostino Locci [...]" e nella corrispondenza del nunzio Filonardi, il quale riferisce che Locci era responsabile di "[...] machini, et altre inventioni per le comedie e feste che si preparano per il Matrimonio di S. M. con la Serenissima Arciduchessa Cecilia. S’accomoda per tal efetto una sala che sarà la maggiore che sia in queste parti [...]". Non conosciamo la data precisa dell’inizio dei lavori di costruzione, non sappiamo nemmeno quale fu l’aspetto e la destinazione precedenti degli spazi coinvolti. Per quanto Filonardi, nel giugno del 1637, scrivesse che "[...] è già finita una gran sala lunga 180 piedi romani fabbricata per farci comedie [...]", sicuramente i lavori di finitura, pittura e stuccatura erano ancora in corso, ritardando di una settimana la rappresentazione del balletto che doveva festeggiare le nozze reali. L’ampia sala teatrale realizzata da Locci, con lo spazio per il pubblico, il palcoscenico e un ben strutturato retropalco con l’attrezzeria, aveva la forma di un rettangolo allungato, di 12 x 48 m circa. Anche Filonardi riporta dimensioni simili (180 piedi romani). Un interno di proporzioni analoghe si ritrova nella pianta disegnata nel 1699, quindi dopo i lavori di ristrutturazione effettuati sotto il regno di Augusto II Wettin. Le scenografie qui descritte, realizzate su quella scena, provano che era provvista di un sottopalco, probabilmente situato sul vecchio piano primo dell’edificio, e di una graticcia all’altezza del nuovo terzo piano, aggiunto proprio allora. La profondità massima della scena con retropalco e servizi era di 24 m circa, sempre supponendo che la ristrutturazione operata alla fine del XVII secolo non abbia alterato le sue proporzioni. Le dimensioni del palcoscenico incluso il retropalco corrispondevano grosso modo a quelle dell’auditorium, mentre la superficie dell’intero teatro doveva ammontare a circa 550-600 m². Quindi, al momento della sua realizzazione, la sala costituiva il più grande (e probabilmente anche l’unico) teatro barocco in questa parte dell’Europa (come l’aveva definita Filonardi), e forse rimase uno dei più grandi teatri interni fino alla fine del secolo. Anche un anonimo viaggiatore, nella relazione del suo viaggio in Polonia, realizzato negli anni ’80 del XVII secolo, scrisse un’osservazione simile: "Il y a une Salle en galerie des plus grandes de l’Europe pour jouer les comedies". Lo spazio scenico era diviso da quello per il pubblico da un muro divisorio aperto in mezzo sulla cavità della scena, incorniciata da un prospetto scenico decorato con dei motivi architettonico-scultorei. Oltre ad alcuni altri elementi d’arredo, le fonti menzionano le colonne poste ai lati, elemento molto frequente nella decorazione dell’arco scenico dei teatri di corte italiani nella prima metà del Seicento. I due spazi erano collegati tra loro da due rampe di scalini poste ai lati. Gli scalini, necessari per raggiungere il palcoscenico, sollevato per fare spazio al sottopalco dove erano sistemate le macchine teatrali, costituivano un comodo raccordo tra la scena e lo spazio del pubblico. Con lo sviluppo delle forme teatrali collocabili tra il "dramma in musica" e il balletto diventarono sempre più frequenti. Ai lati della scena si trovavano anche i palchetti per i musicisti, anche se non sappiamo dove esattamente fossero collocati, né in che rapporto fossero con il livello della piattaforma scenica. Sappiamo poco dell’aspetto dello spazio per il pubblico. I documenti menzionano 16 finestre, disposte su due livelli. Qualche informazione ci giunge da Filonardi che, dopo aver visto una rappresentazione, accenna al fatto che in un punto ottimale di visibilità della scena prospettica, vicino al palcoscenico, su un tappeto e sulla pelle d’orso bianco erano sistemate tre poltrone di damasco rosso destinate al re e agli ospiti più illustri. Quindi non c’era la pedana su cui di solito in Italia si poneva il trono del principe. Tuttavia davanti alle poltrone fu lasciato abbastanza spazio da potere eseguire eventuali danze previste dalla sceneggiatura. La regina, le alte cariche dello stato e i cortigiani sedevano sulle panche rivestite di tela rossa. Gli spettacoli erano visti da alcune centinaia, e forse – come afferma uno dei cronisti dell’epoca – persino da un migliaio di spettatori che stavano per lo più in piedi lungo le pareti della sala. Lo spazio per il pubblico poteva essere disposto a ferro di cavallo, nella maniera in uso nei teatri italiani nel Cinquecento. Sembra tuttavia che i posti a sedere fossero assai limitati. Erano sistemati direttamente sul pavimento della sala, quindi non si trattava di una struttura anfiteatrale, tanto diffusa in Italia. Non c’erano nemmeno i palchi, presenti nei teatri italiani a partire dagli anni ’30 del XVII secolo. I decori dello spazio per il pubblico rimangono ignoti, per quanto, come in Italia, era probabilmente abbellito da dipinti, ornamenti lignei e stucchi, oppure da figure allegoriche. Le fonti disponibili ci tramandano solo tre dettagli: oltre alla ricca illuminazione con lucerne e lampade a olio (le rappresentazioni si facevano di notte), menzionano le rifiniture ornamentali, probabilmente dei lambrecchini del sipario, e il pavimento ad intarsio. La sala varsaviana si richiamava senza dubbio allo schema del teatro di corte formatosi in Italia intorno alla metà del XVI secolo, definito da Giorgio Vasari per il Palazzo Vecchio di Firenze (1565) e sviluppato da B. Buontalenti nel Teatro degli Uffizi e da G. B. Aleotti nel Teatro Farnese di Parma. Gli ultimi due teatri furono molto ammirati da Ladislao IV durante il suo viaggio giovanile in Italia nel 1625. L’elemento più interessante del teatro del castello di Varsavia ai tempi di Ladislao IV sono senz’altro le sue macchine sceniche. Si possono in parte ricostruire in base alle scenografie delle rappresentazioni allestite. Come abbiamo già più volte detto, sulla scena varsaviana ruotavano le quinte girevoli, supportate da alcuni fondali mobili, collocati su rotaie. Il pavimento del palcoscenico era attraversato da fessure e botole, manovrate dalle macchine collocate nel sottopalco. Fuori scena – negli spazi del retropalco e della graticcia – erano posti diversi sistemi di leve e carrucole che si muovevano lungo le traverse con rotaie che permettevano di spostare gli elementi scenografici in orizzontale e in verticale. Il teatro del Castello Reale di Varsavia presentava un livello della tecnica scenica piuttosto alto. Sembra addirittura che fino alla seconda metà del secolo fosse non solo il teatro più grande, ma anche l’unica "scena alla fiorentina" stabile dell’Europa Centro-Orientale e, probabilmente, una delle scene meglio attrezzate di tutto il continente al di fuori dell’Italia.
LA COLONNA DI SIGISMONDO III VASA colonna di Sigismondo III Vasa Sotto il regno di Ladislao IV Varsavia stava diventando la vera capitale della Polonia, luogo d’approdo delle missioni diplomatiche e dei nobili e aristocratici che, accompagnati da centinaia di servi e cortigiani venivano qua quando si riunivano in sessione le due camere del Parlamento. La ricchezza dei loro cortei contrastava con i ruderi in legno che fiancheggiavano i lati dell’accesso principale al Castello. I lavori di riordino di questo spazio probabilmente hanno dovuto attendere sino al 1642 ca. L’impulso emotivo alle iniziative reali fu la nascita, nel 1640, del figlio del re, Sigismondo Casimiro, che risvegliò le mire dinastiche del monarca, sostenute da un vasto programma di propaganda politica, realizzato anche attraverso le opere d’arte. Lo scopo principale era quello di rafforzare l’autorità del re e introdurre in seno alla società polacca un concetto nuovo: di "dinastia dei Vasa". L’erezione di un monumento al fondatore di quella dinastia, il padre di Ladislao IV, faceva parte del programma. Il progetto del monumento, a guisa di una colonna coronata dalla statua del re, fu pronto all’inizio del 1643, ma venne realizzato soltanto nel novembre del 1644. Alla luce dei documenti d’archivio non v’è dubbio, però, che fu proprio Agostino Locci ad avere il ruolo maggiore nell’ideazione della colonna. Sue furono le idee della forma architettonica e dell’ubicazione del monumento. Lo testimoniano due documenti: 1. la lettera del nunzio Filonardi al cardinale Barberini dell’agosto 1643 in cui leggiamo che "L’Architetto in far condurre et alzare detta Colonna è Agostino Locci Romano", mentre l’autore della statua di Sigismondo fu Clemente Molli, fatto venire appositamente da Bologna, e 2. il testo della dedicazione posta su un’incisione con l’immagine del monumento, stampata nel 1646, firmato dall’artista. Tale incisione è l’unico documento iconografico dell’aspetto originario del monumento. Gli autori del messaggio ideologico trasmesso dal monumento a Sigismondo III Vasa, forse il primo monumento a colonna dell’era moderna dedicato a un laico, si riallacciarono consapevolmente alla tradizione antica, in cui l’elevazione reale della figura di un condottiero o imperatore in cima ad una colonna era segno di particolare rispetto e omaggio. Questa tradizione, iniziata nella Roma repubblicana, rimase viva nell’Impero. Venne ripresa poi nella nostra era quando in cima alle colonne si iniziò a porre le statue dei santi. Nell’intento di Ladislao IV il legame tra il monumento a Sigismondo III e i monumenti romani a forma di colonna doveva essere evidente. Tuttavia, non furono i monumenti antichi più noti, come le colonne di Traiano o Marco Aurelio, coronate, per ordine di Sisto V, dalle statue degli apostoli, l’ispirazione principale del progetto. Dal punto di vista formale gli è più vicina la colonna eretta nel 1614 davanti alla basilica di Santa Maria Maggiore. Però v’è un altro monumento romano, ancora più significativo: la colonna dell’imperatore Antonino Pio eretta in granito rosso egiziano a Campo di Marte che, in gran parte sotto terra, era rimasta visibile nel Seicento per l’altezza di circa 6 metri (originariamente era alta in tutto 14,5 m). Nell’era moderna fu ritenuta la più grande colonna monolitica di Roma antica. Era anche l’unica colonna a sé stante, realizzata in pietra rossa, liscia, priva di scanalature – come nel caso del monumento di Varsavia scolpito in marmo rosso. Per le origini di quest’ultimo, eretto dal figlio e successore al proprio padre, risultano molto interessanti le circostanze della realizzazione del monumento di Antonino Pio. La colonna con la statua dell’imperatore fu, infatti, eretta intorno all’anno 161 dai due figli adottivi di Antonino Pio: Lucio Vero e Marco Aurelio che alla morte del padre coniarono anche una moneta con, sul rovescio, l’immagine della colonna a lui dedicata. L’aspetto originale dello schema dell’intero monumento era ben conosciuto dalle monete romane in bronzo che recavano l’iscrizione "Divo Pio". Gli imperatori della dinastia Antonina, inaugurata da Adriano, arrivavano al potere tramite gli atti di adozione, il che serviva ad ottenere un fine superiore, ovvero la continuità del potere. Lo stesso scopo avevano anche le opere d’arte rivolte al maggior numero dei sudditi possibile: un monumento pubblico e le monete. Un ruolo analogo doveva svolgere la colonna dedicata al fondatore della dinastia dei Vasa polacchi. Non era privo di significato anche il fatto che proprio il regno di Antonino Pio fu per l’impero un periodo di pace, stabilità e sviluppo delle arti (il "barocco degli Antonini") e della cultura. Dal punto di vista delle ambizioni politiche di Ladislao IV era quindi indubbiamente giustificato il richiamo al monumento di Antonino Pio. Il re vide certamente quel monumento durante il suo soggiorno romano nel febbraio del 1625. Inoltre, tra le monete e medaglie antiche della ricca collezione reale c’era probabilmente anche il sesterzio con l’incisione del monumento all’imperatore. La storia del monumento poteva essere nota agli studiosi di corte, come agli artisti italiani che lavoravano per il re. Doveva conoscerla anche Agostino Locci, che forse ricordava di avere visto a Roma il pezzo del tronco in granito rosso che emergeva dal terreno. Sembra quindi assai probabile che l’artista, formatosi a Roma e, agli occhi del re, fine conoscitore dell’antichità, fosse non solo il realizzatore dell’idea del monarca, ma anche uno dei consiglieri artistici di Ladislao IV, quindi uno degli autori dell’intero messaggio politico del monumento. La colonna di Sigismondo III fu situata in un luogo molto particolare: accanto alla porta cittadina più vicina al Castello e all’ingresso di rappresentanza della residenza reale. La sua ubicazione doveva avere a che fare con i progetti di risistemazione dell’intera piazza antistante la porta. Secondo un’ipotesi molto allettante e assai radicata nella letteratura del settore, il monumento a Sigismondo III doveva costituire un elemento di un progetto, mai realizzato, di trasformare la piazza davanti all’ingresso del Castello nel cosiddetto "Foro dei Vasa". L’idea premetteva la creazione di un apposito spazio di rappresentanza entro le mura cittadine, destinato – come nella Roma antica – a celebrarvi i trionfi. Oltre alla colonna di Sigismondo III, doveva contenere anche un obelisco con la statua di Ladislao IV e un arco di trionfo in onore di Giovanni Casimiro. A prova dell’esistenza di tale originalissima concezione, senza precedenti nella storia dell’Europa moderna, si cita un passo della poesia di Jan Andrzej Morsztyn, il quale nel maggio 1652 scriveva che il re Ladislao IV "attende ancora il suo monumento". Quindi il monumento alla memoria del re doveva essere eretto accanto alla colonna di suo padre. Di questi progetti ne troviamo conferma sul frontespizio della raccolta londinese dei disegni di Giovanni Battista Gisleni, intitolata Varii disegni d’architettura Inventati e delineati da Gio: Battista Gisleni romano Architetto delle MMaestà e Ser[enissimo] Prencipe di Polonia et Svetia del 1668 ca., che riproduce tutti gli elementi del "foro" progettato. Anche se il "Foro dei Vasa" fosse stato davvero progettato dagli artisti di corte, non avrebbe avuto alcuna possibilità di essere realizzato, e non solo per mancanza di fondi. Nel gennaio 1647, dopo una breve malattia morì l’unico figlio di Ladislao IV. Ogni sogno dinastico cessò di esistere per il re disperato. Nemmeno il successore Giovanni Casimiro avrebbe potuto riprendere il progetto, pur su scala minore, dato che regnò in un periodo sfavorevole all’erezione di obelischi o archi di trionfo, impegnato per anni in guerra e poi nella difficile opera di ricostruzione della capitale, distrutta dagli svedesi.
b. LA CHIESA DEI PP. SCOLOPI A VARSAVIA Il progetto architettonico di Agostino Locci per una chiesa dei Padri Scolopi a Varsavia, il primo documentato, non fu alla fine realizzato nella versione da lui elaborata. L’epistolario del rettore del convento varsaviano, padre Giacinto Orselli, con il fondatore dell’ordine Giuseppe Calasanzio, permette di ricostruire la storia del tempio e la data piuttosto precisa del progetto. Nell’ottobre 1642, qualche mese dopo l’arrivo alla capitale dei frati sull’invito di Ladislao IV, furono effettuate le misurazioni e gli schizzi del terreno acquistato dal re; a dicembre era già pronto il progetto di una chiesa in muratura. Nell’intenzione del monarca lo stile dell’edificio della chiesa doveva richiamare i templi dell’antichità, e tali furono le istruzioni date all’architetto. Lo dice la lettera di Orselli, in cui leggiamo che il monarca "[...] già ha visto alcune disegni fatti dal suo Ingegnere che è da Narni, per capparne uno di un tempio all’antica [...]". Il documento non si limita a definire il tipo della costruzione, ma identifica anche con precisione l’identità dell’architetto, riferendosi al luogo di provenienza. Alla corte del re c’era un solo artista originario di Narni, ed era Agostino Locci. Nella lettera scritta da Orselli nel gennaio 1643 troviamo una descrizione dettagliata del terreno e del progetto di un tempio a pianta centrale, coperto da una cupola, degli elementi del suo interno e degli ornamenti. La descrizione corrisponde esattamente ai due disegni conservati nell’archivio della Casa Generalizia dell’Ordine degli Scolopi a Roma. I disegni riproducono la pianta dell’immobile munita delle note esplicative, gli adattamenti degli edifici preesistenti, l’edificio del monastero e una provvisoria chiesa-cappella, entrambi in legno, e, ovviamente, la nuova chiesa in muratura su pianta centrale. Il primo fu eseguito con ogni probabilità da uno dei frati copiando il disegno di un anonimo architetto che assisteva Locci durante i lavori al progetto, secondo la spiegazione della lettera di Orselli. Il secondo, eseguito da un architetto professionista (forse lo stesso assistente di cui sopra), fu inviato ai superiori dell’ordine più tardi, forse in primavera del 1643, anche se il fatto non è segnalato nell’epistolario del rettore. Completa la documentazione iconografica archiviale un disegno della raccolta dell’olandese Tilman van Gameren, conservata nel Gabinetto delle Incisioni della Biblioteca Universitaria di Varsavia. Rappresenta la planimetria di una chiesa a pianta centrale quasi identica al tempio riprodotto su due disegni conservati a Roma. L’analisi dei tre progetti suddetti, sostenuta da fonti d’archivio, potrebbe giustificare l’ipotesi della seguente cronologia: con ogni probabilità il disegno della raccolta van Gameren fu eseguito per primo, forse come uno degli schizzi all’antica menzionati da Orselli nella lettera inviata a Roma nel dicembre 1642, consegnati al committente reale perché facesse la sua scelta. Non possiamo quindi escludere che questo disegno sia stato eseguito da Agostino Locci in persona. Una planimetria identica fu inserita nella pianta dell’immobile descritta con precisione nella citata lettera dell’Orselli del gennaio 1643. Quel disegno, andato perso, costituiva l’originale della copia eseguita dal frate, conservata nell’archivio dell’ordine a Roma. Il secondo disegno di questa raccolta probabilmente è posteriore e costituisce una versione più elaborata dell’idea originale, o una sua alternativa. La mancanza del materiale iconografico di comparazione non permette di stabilire definitivamente se l’autore del disegno fu l’assistente di Agostino Locci (forse Costante Tencalla), o l’autore del progetto del tempio a pianta centrale, cioè lo stesso Locci. Sembra che i lavori di costruzione siano partiti dal progetto conforme al disegno conservato nell’Archivio di Roma, eseguito dall’autore ignoto. Doveva essere un edificio orientato ad est, a croce greca, con la cupola nella parte centrale e il presbiterio chiuso da abside semicircolare traforata da tre finestre, fiancheggiato da ambo i lati da una coppia di sacrestie con oratori al piano superiore; un terzo oratorio doveva occupare lo spazio nella torre innalzata sopra una delle sacrestie o ad essa affiancata. Allo spazio del presbiterio doveva corrispondere l’ambiente dell’atrio con sopra il coro raggiungibile da una doppia scala a chiocciola nascosta nello spessore del muro. Il progetto prevedeva il posizionamento di cinque altari: l’altare maggiore con la Confessione contenente le reliquie dei santi patroni della chiesa, offerte dal re, e quattro altari minori. Due di essi dovevano essere posti nelle nicchie semicircolari sulla parete orientale della navata, probabilmente affiancate da lesene cui accennava Orselli; le nicchie analoghe, previste per la parete occidentale rimasero vuote. La seconda coppia degli altari doveva essere ornata, con ogni probabilità, da pale d’altare. Sia l’interno, sia l’esterno del tempio dovevano essere arricchiti da numerose lesene. In base alla documentazione progettuale disponibile è impossibile ricostruire l’architettura della facciata. Il ruolo dominante vi giocava il nartece, probabilmente aggettante e forse d’altezza ridotta rispetto alla navata, con i due accessi laterali a cui portavano le scalinate semicircolari e la porta principale fiancheggiata da due colonne a tutt’altezza o da un portico a colonne. E’ una soluzione adottata spesso nelle architetture romane del primo Seicento. L’architettura sacra del Barocco romano era indubbiamente la principale fonte d’ispirazione del Locci. Sembra che la sua opera fosse influenzata dalle opere di Ottaviano Mascarino, soprattutto dal progetto, non realizzato, della chiesa dei SS. Luca e Martina, del 1593, in cui l’architetto bolognese riprendeva, forse volutamente, il progetto di Raffaello per S. Eligio degli Orefici (1509). Nonostante la chiesa degli Scolopi di Varsavia sia rimasta incompiuta, essa costituisce uno dei primissimi esempi di edificio sacro a pianta centrale nella storia dell’architettura polacca moderna. Alla luce dei documenti dell’archivio romano dell’ordine, fu anche la prima chiesa a pianta centrale progettata per gli Scolopi, e, dal punto di vista formale, praticamente capostipite di tutta una serie di altri templi degli Scolopi, sorti in un tempo relativamente breve, come le chiese di Monterano (1675-1678 ca.), di Massa (1697ca.), di Benešov in Boemia (Giovanni Battista Alliprandi, dopo il 1703), di Benevento (dopo il 1707) e di Scanno (dopo il 1712). Della popolarità di questa soluzione architettonica decise probabilmente la chiesa di S. Bonaventura di Monterano, posteriore al progetto varsaviano, e l’autorità di Gian Lorenzo Bernini, ritenuto l’autore del concetto generale di quell’edificio, realizzato dal suo assistente Mattia de Rossi. Senza spingersi troppo in là con le conclusioni, non si può escludere che Bernini o i suoi committenti abbiano veduto il disegno di Agostino Locci, conservato allora già da trent’anni nell’Archivio degli Scolopi di Roma. Si tratterebbe comunque solo di un suggerimento, un ricorso alla prassi dell’Ordine, certamente non di un’ispirazione. Le fonti documentali disponibili non svelano il motivo per cui per la prima chiesa degli Scolopi in Polonia fu scelta la pianta centrale. Non possiamo stabilire se sia stata una preferenza degli frati o un’iniziativa personale dell’architetto. Certamente l’ultima scelta spettava al committente, Ladislao IV, che forse progettava di adibire il tempio degli Scolopi a mausoleo della dinastia dei Vasa.
2. OPERE PRESUNTE a. LA PORTA DI SAN GIOVANNI In contemporanea alla progettazione del monumento di Sigismondo III Vasa erano in corso i lavori di risistemazione dell’ingresso di rappresentanza al Castello Reale. Negli anni 1640-1643 venne eretto anche un portale monumentale a chiusura del cortile antistante il Castello, detto poi la Porta di San Giovanni. Sappiamo di questa porta, che oggi non esiste più, dalla pianta della città eseguita dall’ingegnere svedese Eric Dahlberg nel 1656, e da diverse altre piante di Varsavia prodotte nel Settecento. All’ingresso principale al Castello si accedeva dalla Porta Cracoviense, attraversata la quale si scorgeva a lato la Porta di San Giovanni, per cui la stretta curva all’entrata del cortile era poco avvertibile e la piazza stessa, situata tra le due porte, appariva più ampia. Allo stesso tempo la leggera inclinazione dell’angolo della porta estendeva lo stesso effetto al lato dello sbocco da via Piwna, nella cui prospettiva s’inseriva visivamente l’angolo sud-est del Castello. Vista da entrambe le angolazioni la porta risultava una sorta di quinta di teatro, e una tale "soluzione urbanistica teatrale" doveva essere sicuramente l’opera di un artista dotato dell’occhio di scenografo, consapevole degli effetti ottenuti da scorci prospettici. Sembrerebbe quindi che l’idea del posizionamento della Porta di San Giovanni possa essere attribuita ad Agostino Locci.
b. COLLEGIATA DI KLIMONTÓW La chiesa collegiale di San Giuseppe a Klimontów fu fondata, con l’intento di affidarla all’ordine degli Scolopi, dal cancelliere Jerzy Ossolinski quale sede del mausoleo di famiglia. Nella già citata in precedenza lettera del rettore Giacinto Orselli del gennaio 1643, si trova anche la descrizione del progetto della collegiata, mostratogli da Ossolinski. Sappiamo quindi che doveva essere un edificio a pianta ellittica, assai simile, secondo il frate, alla chiesa romana di S. Giacomo degli Incurabili. Sette altari erano progettati al suo interno: l’altare maggiore, rivolto – come nel progetto della chiesa degli Scolopi di Varsavia – verso i fedeli, per permettere di dire la messa "alla Moderna"; e gli altari laterali, sistemati nelle cappelle comunicanti tra loro. Dalla sagrestia si entrava in un monastero su pianta a ferro di cavallo che doveva abbracciare la chiesa da oriente. I lavori di costruzione iniziarono nell’aprile del 1643, nonostante una certa resistenza delle autorità dell’ordine. A gennaio 1650 lo stato dei lavori era sufficientemente avanzato da inserire all’interno gli stucchi ornamentali e deporre nella cripta i resti mortali del fondatore, famoso per avere effettuato il leggendario, magnifico ingresso a Roma nel 1633. La chiesa era stata certamente già consacrata. Tuttavia non sappiamo se gli Scolopi siano mai arrivati a Klimontów, né conosciamo le sorti del monastero che doveva essere eretto accanto alla chiesa. La costruzione della collegiata, interrotta dalla morte del fondatore, fu conclusa soltanto nella seconda metà del XVII secolo, quando furono eretti il tamburo, la cupola, il nartece e le due torri della facciata. Il progetto del tempio di Klimontów attingeva direttamente a quello, mai realizzato, di Ottaviano Mascarino per la chiesa romana di S. Spirito dei Napoletani, del 1584, conservato nella raccolta dell’Accademia di S. Luca a Roma. L’autore della collegiata di Klimontów restrinse tuttavia il progetto di Mascarino, inglobandovi il disegno della Loggia dei Negozianti progettata dallo stesso autore, anch’essa mai realizzata, risalente al 1585. Sembra che per la collegiata fosse stata sfruttata solo la parte centrale del progetto di S. Spirito dei Napoletani, cioè la navata e l’ambulacro, e si sia rinunciato alle cappelle disposte radialmente, sostituite a Klimontów dalle nicchie poco profonde illuminate da finestre. Al posto di otto coppie di colonne segnate sui disegni del Mascarino l’architetto di Ossolinski mise otto pilastri con le nicchie che dal lato della navata celavano colonne singole. Inoltre, altre colonne decorarono la facciata a ponente, dove sembra abbiano sostituito un portico di accesso progettato originariamente, identico al progetto di Mascarino. Gli edifici a pianta ellittica, dopo la fase "sperimentale" del sec. XVI, elaborata teoricamente da Baldassare Peruzzi i Sebastiano Serlio, conquistarono una notevole popolarità già alla fine del Cinquecento, diffondendosi soprattutto nel secolo successivo. Di tutti i progetti di edifici ovali, solo pochi sono stati realizzati. Questa sproporzione tra il numero dei progetti e le realizzazioni concrete è dovuta ad alti costi e notevoli difficoltà tecniche connesse alla realizzazione, anche nel sec. XVII, della copertura di una struttura ellittica. Tra le prime realizzazioni bisogna elencare le due chiese erette da Giacomo Barozzi da Vignola: S. Andrea in via Flaminia (1552-1553) e S. Anna dei Palafrenieri (dal 1550, conclusa da Giacinto Barozzi da Vignola). Verso la fine del Cinquecento furono costruite anche la chiesa mantovana di S. Lorenzino (1590) di Giorgio Vasari il giovane e la cosiddetta Vlasska Kaple presso il Clementinum di Praga (1590-1600); iniziarono anche i lavori per la costruzione del gigantesco santuario della Madonna Santissima del Mandovì a Vico. E’ degna di nota anche la chiesa di S. Giacomo in Augusta (S. Giacomo degli Incurabili) a Roma, la cui costruzione, iniziata sul progetto di Francesco da Volterra nel 1592 e conclusa da Carlo Maderno per l’Anno Santo 1600, è indicata nella lettera di Orselli come – a suo dire – la più vicina al progetto del tempio degli Scolopi a Klimontów. Quella di Klimontów è tra le poche chiese a pianta ellittica iniziate nella prima metà del Seicento ed è, accanto al tempio varsaviano dello stesso ordine, il secondo edificio sacro a pianta centrale di notevole valore architettonico progettato in Polonia. Il fatto che i lavori di costruzione della collegiata si conclusero solo nel XVIII secolo non sminuisce la sua importanza. La costruzione di gran parte delle chiese elencate sopra durò molto a lungo. Le coperture di S. Anna dei Palafrenieri di Roma e del santuario di Vico risalgono alla metà del XVII secolo. Le fonti storiche relative alla costruzione della chiesa di Klimontów non indicano il nome dell’autore del progetto, nonostante si trattasse indubbiamente di una personalità artistica originale. Nulla indica che si tratti di Lorenzo de Sent, il costruttore citato dalle fonti. Vale la pena di notare però qualche coincidenza che forse non è casuale. Il progetto della chiesa di Klimontowo era pronto per la realizzazione esattamente quando lo fu il progetto di Agostino Locci, eseguito per lo stesso ordine religioso. Giacinto Orselli vide entrambi i disegni lo stesso giorno, il 5 gennaio 1643, e li descrisse nella stessa lettera. Entrambi i progetti sono nati sotto una fortissima influenza dell’opera di Ottaviano Mascarino e si riallacciano ai progetti concreti di quell’autore. Molti elementi sembrerebbero quindi indicare che Agostino Locci poteva essere autore di entrambi i templi degli Scolopi, su commissione del re e del cancelliere. Della scelta della pianta centrale per la collegiata di Klimontowo decise sicuramente – analogamente al caso della chiesa di Varsavia – la sua funzione sepolcrale. Fu il primo, e l’unico fino alla fine del XVII secolo, esempio di un edificio ellittico nell’architettura di questo ordine religioso, anche se mancano i documenti che confermino il passaggio della chiesa fondata dal cancelliere agli Scolopi.
c. ALTRE ATTIVITA’ DI AGOSTINO LOCCI Sembra che, oltre all’attività di architetto e scenografo, Agostino Locci si occupasse di altri progetti minori su ordine di Ladislao IV. Forse è lui l’autore del catafalco per le reliquie di San Casimiro, esposte a Vilnius nel settembre 1636. Grazie alla descrizione del nunzio Filonardi sappiamo che la struttura, di cui mancano le notizie dirette, aveva la forma di un tempietto a cupola sostenuto da otto colonne. Il catafalco si richiamava dunque ad altri simili a "tempio" progettati, tra l’altro, da Gian Lorenzo Bernini negli anni ’20 del XVII sec., come quelli per Paolo V e Carlo Barberini. Sembra che sia il committente, sia l’autore del progetto vilnense dovessero conoscere, direttamente o dalle incisioni, una tale struttura. Esattamente nello stesso periodo, nell’estate del 1636, soggiornava a Vilnius Agostino Locci che vi stava costruendo la scena provvisoria e le macchine per il dramma in musica Il Ratto di Helena. Certamente, non è questa la prova che possa stabilire in modo inequivocabile la paternità del catafalco a tempietto. Sembra tuttavia poco probabile che per un’impresa tanto rilevante il committente si sia rivolto ad altri, avendo a disposizione un artista "romano" di grande reputazione, presente in città proprio allora. Nel settembre del 1637, in chiusura dei festeggiamenti nuziali di Ladislao IV, sulla scena provvisoria in legno innalzata davanti al Castello fu allestito un "torneo a piedi". Lo spazio per il pubblico, sistemato ad anfiteatro e parzialmente coperto, con i palchi destinati ad ospiti d’onore, circondava un’arena circolare. Da modello per il torneo servì la "quintanata", ovvero la Giostra del Saracino, svoltasi su iniziativa del cardinale Antonio Barberini a Piazza Navona il 25 febbraio 1634 in onore del fratello di Ladislao IV, principe Alessandro Carlo Vasa, che soggiornava allora a Roma. Nell’estate del 1637 il nunzio Filonardi donò al re la descrizione in stampa di quello spettacolo, riccamente illustrata da incisioni (Festa fatta in Roma Alli 25 di Febraio MDCXXXIV. E data in luce da Vitale Mascardi [...] in Roma con dieci gentilissimi disegni [...] fatti dal Sig. Andrea Sacchi [...]), che suscitò un grande interesse del monarca e lo invogliò a organizzare un torneo simile durante le prossime feste di nozze. Grazie a uno spettatore presente alla giostra sappiamo che, oltre al "balletto militare", nello spettacolo furono mostrati anche i "carri argentati", e il costo dell’impresa ammontò addirittura a 35 mila fiorini. La somma così gigantesca per l’epoca fu assorbita probabilmente non solo dalla struttura in legno del teatro, forse modellata sulla costruzione eretta da Guitti, ma anche da quei veicoli indefiniti, forse ispirati alle sue macchine, la più grande attrazione dello spettacolo romano. Possiamo quindi supporre che l’autore di queste meraviglie della tecnica non potesse essere altri che lo scenografo e ingegnere di corte Agostino Locci, responsabile dei festeggiamenti delle nozze reali.
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Non è facile tirare le somme di un’opera tanto varia di Agostino Locci, ricostruita principalmente basando sulle fonti d’archivio e sicuramente non ancora conosciuta per intero. Si tratta di uno scenografo di talento, ottimo conoscitore della propria arte sostenuta da profonde e vaste conoscenze tecniche. Costruì il teatro del Castello Reale di Varsavia. Progettò almeno un edificio sacrale di grande valore architettonico. Partecipò in misura non indifferente alla ideazione del monumento a colonna di Sigismondo III Vasa, simbolo della capitale polacca. Nei rifacimenti delle residenze reali dimostrò le sue capacità di ingegnere e architetto dei giardini. Probabilmente il re e la corte si servirono ampiamente della sua conoscenza dell’arte romana e della ricca cultura di corte italiana, in cui abbondavano le più varie celebrazioni parateatrali, mentre la versatilità artistica del Locci si poté dispiegare nell’esecuzione di molteplici commissioni per le scene provvisorie, le altre strutture occasionali, le macchine di teatro e in tutte le attività di coordinamento delle imprese artistiche del monarca polacco. Traduzione Ewa Joanna Kaczynska L'opera di Locci fu continuata con grande successo dal figlio Agostino Vincenzo Locci, suo figlio e allievo, architetto del re Giovanni III Sobieski. nella immagine il Palazzo reale di Wilanowie progettato dal Locci Il Palazzo di Wilanów si trova a Wilanów, quartiere di Varsavia ed è, insieme al parco e alle altre costruzioni che lo circondano, uno dei più preziosi monumenti della cultura nazionale polacca. È sopravvissuto all'età delle spartizioni della Polonia e alle guerre ed ha preservato le sue autentiche qualità storiche. Fu costruito per il Re polacco Jan III Sobieski nell'ultimo quarto nel XVII secolo e fu in seguito ingrandito dai proprietari successivi. Rappresenta il classico tipo di residenza barocca periferica entre cour et jardin (tra la corte e il giardino). La sua architettura è molto originale - mescola l'arte europea con la tradizione dei palazzi antichi della Polonia e con gli interni, che utilizzano antichi simboli, glorifica la famiglia Sobieski, specialmente il trionfo militare del Re. Dopo la morte di Jan III Sobieski nel 1696, il palazzo passò in mano ai figli, e in seguito (nel 1720) alle famose famiglie di magnati: Sieniawscy, Czartoryscy, Lubomirscy, Potoccy e Braniccy. Dal 1730 al 1733 fu la residenza di Augusto II il Forte, anche Re di Polonia. Ogni proprietario cambiò gli interni del palazzo, come anche i giardini che lo circondano, secondo la moda corrente. Nel 1805 il proprietario del momento, Stanislaw Kostka Potocki, trasformò una parte del palazzo in museo (uno dei primi musei pubblici della Polonia). Oltre all'arte europea e orientale, la parte centrale del palazzo ospitava esposizioni sul re Jan III Sobieski e sul glorioso passato della nazione. La maggior parte della collezione di opere d'arte fu trafugata dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale, e fu reimpatriata nel 1962, quando il museo riaprì. Il palazzo e il parco di Wilanów non sono solo una testimonianza dello splendore della Polonia del passato, ma anche un luogo in cui si tengono eventi culturali e concerti, inclusi i Concerti Reali Estivi nel Giardino delle Rose e l'Accademia Internazionale Estiva della Musica Antica. Locci è legato anche a Pacelli ma anche con i fratelli Anerio
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ideazione e progettazione Giuseppe Fortunati |