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Beata Lucia 

de Narnia

Approfondimenti

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Nata a Narni il 13 Dicembre 1476 Morta a Ferrara nel 1544 Beatificata nel 1710

La sua Festa si celebra liturgicamente il 16 di novembre.

Gino Cotini

L’AMORE VINCE SEMPRE

Biografia

( della B. Lucia Broccadelli )

 

Narni

Nel cinquantenario della Traslazione

Delle reliquie

1985

 

 

Alle giovani e ai giovani Narnesi

dedico questo lavoro

augurando che la lettura di queste pagine

sia di incremento alla loro cultura,

aiuto a comprendere la bellezza della vita.

La conoscenza di Lucia Broccadelli,

confrontata con le esperienze del mondo,

sia guida alla conquista di ideali sempre più belli,

perché nella libertà e nell’amore

sappiano valutare le cose di ogni giorno

alla luce dell’Eterno

e costruire un mondo migliore.

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Alle gentili lettrici e ai gentili lettori

 

Mentre si elaborava un programma di celebrazioni per ricordare il cinquantenario della traslazione delle Reliquie della B. Lucia da Ferrara a Narni, avvenuta nel maggio 1935, è stato constatato che il volume scritto da Mons. Brugnola in quell’anno sulla sua vita, era completamente esaurito.

Esaminando poi la situazione della nostra città, abbiamo potuto constatare pure, che il ricordo della Beata concittadina, specialmente sulle generazioni posteriori agli anni ’40, si è molto affievolito; tutti siamo perciò convinti che è provvidenziale la circostanza, che ci si presenta, del cinquantenario di uno dei più importanti avvenimenti religiosi di Narni della prima metà di questo secolo, la traslazione delle sue reliquie da Ferrara a Narni, non doveva passare inosservato.

L’avvenimento del 1935 fu veramente straordinario non solo per le manifestazioni solenni che ebbero luogo, ma soprattutto perché segnò una rinascita spirituale della vita religiosa e delle pratiche cristiane ed anche della ricerca culturale di quanto interessa la storia e i personaggi eminenti della nostra città.

La Beata Lucia che ritornava nella sua città, cittadina del cielo, ha distribuito favori celesti e ottenuto tanta luce alle menti,che sono fiorite anche delle conversioni.

Incoraggiato e sostenuto da tanti amici, specialmente dal nostro laicato, quando si parlò delle celebrazioni del cinquantenario, ho cercato di raccogliere qualche nota, riempire qualche cartella e mi sono trovato con questo modesto scritto, che oggi vede la luce, affinché sia sempre disponibile a tutti il necessario per conoscere ed imparare dal passato.

Lo presento ai miei fratelli e alle mie sorelle della chiesa di Dio che è in Narni, Terni ed Amelia e chiedo una cosa sola, di fargli buona accoglienza.

Non è un’opera che ha delle pretese; ho cercato di riportare i fatti e i momenti che hanno reso grande la nostra sorella Lucia Broccadelli.

Non è un volume da biblioteca, ma una voce amica, che cerca di portare il suo contributo per far conoscere la santità, la personalità e la missione di Lucia Broccadelli, le opere compiute in vita e dopo la morte, diventando modello, guida e avvocata della sua città, dell’Ordine Domenicano e delle città di Viterbo e Ferrara.

Ho dedicato questo scritto ai giovani e alle giovani narnesi con l’augurio che dalla lettura di esso possano sentirsi spinti verso gli ideali più belli e, sulle orme di Lucia, imparino l’amore di Dio e del prossimo, che è il fondamento per costruire un mondo nuovo.

Sorella o fratello che leggi queste pagine, vi troverai tante manchevolezze, ma ti prego di voler scoprire tanto amore verso la Beata concittadina e tanto desiderio di servire come ha fatto lei, il Cristo, e la sua immagine risplenda tra i fratelli o almeno venga apprezzata per il suo aspetto umano, generoso e forte.

La Beata Lucia ci accompagni nel nostro cammino. G.C.

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I

 

NARNI TRA IL MEDIOEVO E IL RINASCIMENTO

 

La città di Narni nella seconda metà del secolo XV e agli inizi del secolo XVI, politicamente ed economicamente, aveva iniziato il suo declino che nel 1527 raggiunse il fondo con la distruzione ad opera dei Lanzichenecchi.

Il glorioso, potente e prepotente Comune medioevale aveva perduto molto del suo prestigio a causa della diminuzione della sua autonomia ad opera di nuove disposizioni e della riaffermata autorità dello Stato Pontificio.

La politica del Cardinale Albornoz aveva ristabilito una severa disciplina sottomettendo molti comuni dell’Italia Centrale, legandoli alle sorti dello Stato Pontificio, e la Rocca, costruita per suo ordine sulla collina ad essa sovrastante come in altre città vincolate allo stesso Stato Pontificio, rappresentava un posto di osservazione da cui il presidio militare garantiva la soggezione e frenava qualsiasi programma di autonomia, inteso a ripristinare il prestigio di potenza, che il Comune aveva avuto fino a quel momento.

I castelli sfuggivano al suo dominio ed erano diventati proprietà dei signorotti favoriti.

Anche le comunità che attraverso convenzioni e trattati erano state legate al suo carro, avevano alzato la testa e, sostenute da privilegi e interventi pontifici, si sentivano sicure da ogni atto di sopraffazione, fiduciose nella soggezione e nell’autorità pontificia, non sentivano più il bisogno di quella protezione che, pur costando cara, il Comune narnese aveva potuto offrire loro per qualche secolo.

Tipico il caso di Stroncone, che nel motto del suo stemma dichiara: Stronconium liberum. E scrive sulla porta del castello: "Stroncone libero, soggetto alla sola S. Sede nel cui servizio c’è libertà" in riconoscenza al Papa Pio II che l’aveva tolta al dominio narnese.

Rimaneva a Narni il prestigio della Sede Vescovile che estendeva la sua giurisdizione secondo i confini del vecchio Comune e delle comunità ad esso legate: S. Gemini, Calvi, Otricoli, Stroncone, Castiglione e Configni.

Nella città però si affermava uno sviluppo culturale particolare attraverso varie manifestazioni dell’arte.

Artisti assai noti dell’epoca, Antoniazzo Romano, Bozzoli, Vecchietta, Bernardo da Settignano, i Maestri Comacini, Pier Matteo d’Amelia, i fratelli Torresani lavoravano su commissione del Comune, delle Confraternite e Corporazioni.

Si arricchivano di tesori la chiese. In Cattedrale la cappella del S.S. Sacramento e il Portico e nella chiesa di S. Agostino la Cappella di S. Sebastiano sono gli esempi più tipici. Inoltre la meravigliosa Incoronazione del Ghirlandaio per la chiesa di S. Girolamo, l’Annunciazione del Gozzoli per la chiesa di S. Domenico e gli affreschi, sempre del Gozzoli, nella Cappella Eroli in S. Francesco, sono testimonianze incancellabili.

Contemporaneamente si affermavano i cittadini narnesi nelle diverse attività, dall’arte militare alla vita ecclesiastica.

Tutti però dovevano andare lontano dalla città che aveva dato loro i natali e di cui sono sempre stati onore e vanto. Ad essa tuttavia rimanevano legati dedicandole canti e scritti e, molti di essi, concorrendo ad abbellirla dotandola di monumenti e palazzi.

Dal Gattamelata, comandante supremo delle milizie della Serenissima, ai Rodolfini, comandanti delle truppe a Bologna contro i Malatesta e il Piccinino, ai Cardoli; da Galeotto Marzio, filosofo e scienziato, amico di re e di principi e maestro a Padova e Bologna, al Pierleoni, medico di Lorenzo il Magnifico; da Giovannello da Narni all’architetto Risi; dal Cardinale Berardo Eroli, vescovo di Sabina e di Spoleto e legato Pontificio, al Cardinale Scosta che fu arcivescovo di Avignone; dal Cardinale Scotti al vescovo Carlo Boccardo, al vescovo Costantino Eroli, ai giureconsulti delle famiglie Arca e Marinata fino al Senatore Cesi e ai membri della illustre famiglia, ci fu una serie di personaggi narnesi che fecero onore alla loro città e ne portarono ovunque la fama,non solo in Italia, ma anche all’estero: dalla Francia all’Ungheria, dalla Germania alla Spagna.

Ma grande fu anche la fioritura di santi che operarono nella società dell’epoca e di riflesso onorarono la chiesa del loro Battesimo: il B. Antonio da Stroncone, la B. Colomba di Rieti di famiglia di Collescipoli, La B. Firmina Cesi, il B. Matteo Prosperi, che continuarono la tradizione di santità, fiorita nel Medioevo con i Santi Protomartiri Francescani e gli altri santi e beati dello stesso ordine, il B. Stefano e il B. Valentino.

In questa scia si inserisce la dolce e nobile figura della concittadina Lucia Broccadelli, che partì da Narni a 19 anni, già nota per la santità e soprattutto per la testimonianza di carità da lei data nella sua città dove era nata, ritenuta come la madre, l’aiuto dei poveri.

Fu questo un periodo in cui tutta la nostra Umbria fu feconda di queste sante creature le quali, nel silenzio di un monastero, dopo una vita piena di peripezie di ogni genere, si trovarono coinvolte negli avvenimenti clamorosi dell’epoca. Piene di grazia e di Spirito Santo, si abbandonarono nelle mani di Dio e si imposero anche all’ammirazione dei potenti e parlarono, scrissero, si presentarono maestre di santità, di verità, di pace e di carità, perché erano piene di grande amore.

I nomi di S. Rita da Cascia, della B. Colomba da Rieti, di S. Chiara di Montefalco, rimangono punti di riferimento della pietà e del misticismo, di cui la nostra regione è stata ricca, ispirati dal suo ambiente e dal suo cielo.

Umili e fragili creature, che in vita meravigliarono il mondo e dopo la morte rimasero ancora vive e operanti Attirando l’attenzione di folle immense, che ne esaltarono la santità e si affidarono alla loro protezione.

In questo cielo stellato palpita di luce limpida anche Lucia Broccadelli, la nobile narnese, che ancora ha tante cose da dire anche a questo mondo contemporaneo.

II

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Cappella della Beata Lucia in Duomo

ALBORI DI UNA VITA STRAORDINARIA

 

 

 

La famiglia Broccadelli era nota a Narni, perché il padre Bartolomeo era il Tesoriere o Camerlengo della città.

Era una famiglia che contava personalità ecclesiastiche e civili di spicco, uno dei fratelli, Domenico, a Roma era datario apostolico e un altro fratello era giureconsulto.

Bartolomeo, aveva preso in moglie una nobile e bella giovane, Gentilina Cassio, persona molto pia, di profonde convinzioni religiose, come lo era lui stesso.

Il 13 dicembre 1476 Gentilina dette alla luce un’ amore di bambina, la primogenita, a cui fu dato il nome di Lucia, per la devozione che nutrivano verso la Santa martire omonima e per la coincidenza della nascita della bambina nel giorno della sua festa.

Lucia fu battezzata, forse, nella chiesa di S. Agostino, adiacente all’abitazione dei nobili Broccadelli.

Molti fatti straordinari accompagnarono la nascita e la crescita di quella bambina e il loro racconto lascia pieni di stupore, perché nel mondo in cui viviamo si prova difficoltà ad accettare e a considerare certi avvenimenti, il cui racconto viene ritenuto come cosa d’altri tempi, destinata a colpire la fantasia più che l’intelligenza.

Abituati a tenere gli occhi sulle cose terrene, nella ricerca dell’utile, del piacevole e del superfluo, non riusciamo a capire quello che riguarda la possibilità di Dio, il soprannaturale e le sue manifestazioni e vorremmo quasi limitare la Sua potenza, perché non sappiamo spiegarne le opere.

Eppure la vita della Beata Lucia è piena di queste manifestazioni, di cui le persone di famiglia e tanti suoi contemporanei sono stati testimoni. Basti leggere quanto hanno scritto Suor Diambra, una religiosa che per tanti anni le è stata vicina, e il suo confessore.

La sua infanzia e la sua giovinezza furono contrassegnate da episodi che dimostrano che si trattava di una bambina straordinaria, la quale era destinata a cose grandi. Sembrava che il Signore volesse far capire a tutti l’importanza della sua missione, attirando l’attenzione delle persone su di lei, perché valutassero con l’occhio della fede ciò che in lei avveniva.

Ad esempio molti della famiglia vedevano ogni tanto avvicinarsi alla sua culla una religiosa dell’ordine di S. Domenico. La mamma Gentilina raccontava che le era stato svelato trattarsi di S. Caterina da Siena.

S. Caterina da Siena fu veramente la grande maestra da cui la Beata Lucia imparò il cammino della santità, ne fu devotissima e leggeva assiduamente i suoi scritti.

L’infanzia della Beata trascorse, da una parte, come quella di tutte le bambine della sua età, della sua epoca e del suo ambiente, dall’altra, contrassegnata a volte da un comportamento che rivelava una particolare intelligenza e la presenza di carismi straordinari.

In alcuni momenti, i suoi familiari si trovavano di fronte a certi episodi che all’occhio del profano potevano sembrare stranezze, ma che, visti con l’occhio illuminato della fede, diventavano rivelatori di particolari disegni di Dio che, trovando l’anima della fanciulla prima, e della giovinetta poi, ben disposto, pieno di amore e di generosità, la preparava a cose grandi e soprattutto a conquistare la vetta più alta della perfezione. I carismi operati dallo Spirito Santo erano abbondanti nella sua anima, ma grande, spontanea e generosa fu anche la sua risposta.

Chiunque la conosceva, rimaneva meravigliato anche del suo parlare, che spesso manifestava profondità di sapienza e intuito delle cose sante superiore alla sua stessa età.

Più volte malata ed anche seriamente, venne guarita in modo prodigioso per l’intervento della Madonna, di cui era devota. I Santi verso i quali dimostrava particolare devozione, oltre S. Caterina da Siena, erano S. Giovanni Battista, S. Pietro martire, S. Domenico, mentre nitriva per la Madonna S.Sma un affetto tenero e filiale.

Intorno ai 7 anni, ella racconta, sente una voce che la invita a scendere nella chiesa di S. Agostino. Corre subito ed entrando si trova davanti una visione: Gesù, la Madonna, S. Caterina da Siena e S. Domenico in mezzo ad una schiera di angeli.

Gesù le chiede se vuole essere sua sposa.

Risponde con slancio e si accorge che le viene messo al dito un anello, oggetto che ha conservato per tutta la vita. Le viene chiesto di rinunciare alle sue vesti preziose e S. Domenico la riveste dello Scapolare.

Rimane in estasi non si sa per quanto tempo. Riavutasi, si trova invece a contemplare un’immagine sacra che aveva nella sua stanza e rivestita delle sue vesti.

Comincia a saltare e a cantare per la gioia attirando l’attenzione di familiari, ai quali poi narrò la visione. Quella visione lasciò un ricordo che l’accompagnò per tutta la vita.

Cominciò allora una pratica di pietà più profonda, che meravigliava tutti per il tempo che trascorreva assorta in preghiera. E man mano che cresceva, prendeva in lei consistenza il proposito di consacrarsi completamente a Dio.

Intanto aveva scelto anche un religioso a cui si confidava, chiedeva spiegazioni e manifestava i suoi progetti, il Padre Martino da Tivoli, Priore dei Domenicani nel convento di S. Domenico.

A 12 anni ottiene da Padre Martino il consenso per fare il voto di consacrazione perpetua a Dio.

Così trascorreva al sua infanzia e iniziava al sua adolescenza

I parenti cominciarono ad elaborare progetti per il suo futuro, come era il costume dell’epoca, e come avviene in ogni tempo specialmente per le ragazze, anche perché su di lei si rivolgevano, attratti dalla sua bellezza, gli occhi dei giovani nobili della città e delle loro famiglie.

Avendo raggiunto i 14 anni, prese consistenza nell’animo dei genitori e degli zii il disegno di pensare ad un buon matrimonio. Era quella l’età ritenuta giusta, la giovinetta era bella, si presentava piacente e soprattutto dimostrava intelligenza e comportamento superiore alla sua età. Si attendeva perciò con ansia l’occasione e la proposta di un buon partito.

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III

SPOSA

 

Eravamo in tempi in cui i matrimoni erano combinati dai genitori e i figli, compresi i maschi, dovevano piegarsi a quei disegni che, più di ricercare la felicità di essi, avevano lo scopo di dare una sistemazione al patrimonio familiare, creare interessi comuni , farsi amiche le famiglie potenti.

La donna, poi, dal matrimonio non aveva altro che soggezione al marito, cura dei figli e della servitù e pochissima voce nelle decisioni da prendere riguardanti la stessa famiglia.

A Bartolomeo Broccadelli non sfuggiva quella sua figlia giunta all’età di 14 anni, distinta per la sua bellezza, saggia, ammirata da tutti. Pensò allora che fosse giunto il momento di parlare con lei dei progetti che aveva fatto circa una sua sistemazione matrimoniale.

Lucia rimase turbata ma, decisamente, disse al padre, che non intendeva affatto sposarsi. Bartolomeo provò ad insistere ma, vista la sua ferma volontà e i motivi da lei portati per suffragare il suo rifiuto, pensò che fosse meglio rimandare il discorso.

Poco tempo dopo questo colloquio, nel 1490, Bartolomeo veniva a morire a soli 40 anni.

Questo lutto sconvolse la famiglia e particolarmente Lucia, che al padre era legata in modo speciale e portò delle serie conseguenze in tutta la parentela. Gli zii, anche se buoni cristiani, pensavano che fosse opportuno prendere una decisione ferma e vincere ogni resistenza di Lucia, che era la maggiore dei figli, persuadendola a sposarsi. Se lei si fosse convinta, sarebbe entrato in famiglia un uomo con il suo patrimonio che avrebbe potuto prendere in mano le redini di tutto l’andamento familiare, tenendo conto tenendo conto che c’erano gli altri fratelli di Lucia, quattro maschi e tre femmine, tutti più piccoli di lei. Ma Lucia era sempre irremovibile nel suo proposito, per cui si pensò che fosse necessario agire di sorpresa e con fermezza.

Un giorno, infatti, decisero di farla incontrare con la famiglia di un giovane designato ad essere lo sposo anche da parte dei genitori di lui. Era un partito economicamente buono,sembra però che si trattasse di un giovane, diremmo oggi, insignificante. Uno di quei figli di papà di cui è pieno il mondo, succube dei suoi genitori, che si muoveva ai loro ordini come un burattino.

Le due famiglie avevano deciso di comune accordo di muoversi inaspettatamente.

Il giorno convenuto si riunirono tutti in casa degli zii, dove Lucia si trovava da qualche tempo, fecero venire il notaio e senza preamboli le dissero che quel giovane era il suo sposo. Questi si avvicinò a Lucia, le prese la mano e tentò di infilarle l’anello al dito come segno di accettazione del matrimonio. Lucia, con repentina decisione che meravigliò i presenti, allontanò con un ceffone il giovane che la teneva per la mano cercando di trattenerla, si svincolò da lui, si tolse l’anello e lo gettò per terra calpestandolo. Poi fuggì chiudendosi in camera.

Il giovane e i suoi familiari si allontanarono sdegnati e offesi. Intanto quella mossa decisa aveva sconvolto i piani dei suoi e della famiglia del giovane e Lucia ebbe la vittoria. La cosa però non finì lì. Dopo qualche mese i parenti ritentarono la prova.

C’era a Narni un giovane conte di nome Pietro di Alessio. Era un milanese che era stato adottato da una zia residente a Narni, ricca, vedova e senza figli. Era avvocato e forse presidente del collegio degli avvocati.

Questi aveva conosciuto ed ammirato Lucia da quando era poco più di una bambina, sui nove o dieci anni, se ne era innamorato e, essendo ancora sedicenne, attratto dalla sua bellezza e dal suo comportamento distinto e superiore alla sua età, dichiarò che avrebbe atteso che compisse i quindici anni e avrebbe fatto del tutto per averla in sposa, ciò fece infatti al momento stabilito.

Anche questo era un buon partito, si trattava inoltre di un bel giovane a differenza dell’altro e, dicono gli storici,anche di nobilissime maniere. Le ricchezze della zia inoltre, un giorno sarebbero state sue.

Pietro aveva 22 anni e Lucia 15, lui dimostrava sempre di essere innamoratissimo di lei. Visto però che Lucia non si piegava, gli zii la sequestrarono in casa, erano decisi infatti ad usare ogni mezzo per convincerla.

Lucia, per la pena e l’incubo, uniti alla solitudine in cui si era venuta a trovare per la contrarietà di tutti i parenti, eccettuata la mamma che però non poteva opporsi, si ammalò gravemente, tanto che fece temere per la sua vita. Gli zii rimasero sconcertati e si impegnarono con i medici di non parlare più di matrimonio. Dopo qualche giorno Lucia guarì quasi prodigiosamente.

Intanto, confortata dalla visione della Madonna, si dichiarò disposta al matrimonio, ma fece promettere al giovane conte, che egli avrebbe rispettato il suo voto. Pietro dichiarò di aderire al suo desiderio nella segreta speranza però, che la sposa sarebbe ritornata sui suoi passi.

Certamente si rimane meravigliati di fronte a questo mutamento di Lucia e, ancora di più, dall’accettazione della condizione da lei posta da parte del conte. La spiegazione però è facile capirla: tanto Lucia che Pietro speravano di indurre l’altra parte a cambiare parere.

Così a 15 anni, nel 1491, Lucia andò sposa.

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IV

 

LA SIGNORA CONTESSA

In un primo momento, gli sposi abitarono nella casa Broccadelli, poi passarono ad abitare nella casa della zia del conte. Era una casa grande con un folto numero di persone di servizio.

Lucia cominciò subito a prendere in mano le redini della casa e a prendere contatto con la servitù. Ciò che faceva impressione ai servi, era il modo con cui li trattava ed aveva cura di loro, cosa che a quei tempi non era facile avvenisse.

Si preoccupava della loro salute e dei loro problemi, parlava con loro ed era sempre pronta a dare suggerimenti e consigli. Passava con loro parecchie ore della giornata e spesso era lei ad aiutarli nel disbrigo dei loro compiti. Si preoccupava della loro vita spirituale e ogni giorno li riuniva per la preghiera, in modo da compensare la loro fatica, oltre che con un buon trattamento, comunicando loro anche l’amore di Dio.

Suo marito, il conte Pietro, sperando di poterla attirare a sé in tutto e farla recedere dal suo proposito, la trattava con dolcezza e la ricopriva di attenzioni e di doni. Era fiero di poterle regalare preziosi vestiti e gioielli, perché fosse ammirata nella società, cercava anche di assecondarla nei suoi desideri e nei suoi propositi di beneficenza.

Ma una cosa c’era che lo rendeva scontento: vedere la sua sposa che, pur esprimendo gratitudine per quanto lui faceva, desiderava starsene ritirata, passando più soddisfatta il tempo con i servi, trattenendosi in conversazione con loro, visitando i poveri, piuttosto che frequentare la nobiltà scambiando visite e convenevoli con i pari del suo rango. La vita ritirata di Lucia iniziava a dare motivo a congetture e giudizi poco benevoli presso le pompose signore della città, le quali commentavano i fatti, come avviene ancor oggi, nei salotti e nei ricevimenti. Ma Lucia non si preoccupava dei giudizi, il suo intento era quello di impegnare utilmente il suo tempo e sfuggire ogni vanità.

Si racconta che un giorno il conte Pietro le aveva regalato un preziosissimo vestito e ci teneva che lo indossasse. Lei invece rimandava sempre, anzi, accadde un giorno che una povera vedova andò da lei e, piangendo, le aveva detto che aveva bisogno di una somma rilevante di denaro per riscattare suo marito, che altrimenti sarebbe stato messo in prigione.

Lucia, commossa, pensò di darle alcuni suoi vestiti perché li vendesse e potesse avere la somma richiesta, quindi andò subito a cercare nel suo guardaroba che cosa avrebbe potuto darle per lo scopo. Vedendo il suo abito più bello, quello regalatole da Pietro, giudicò che fosse sufficiente da solo, per il suo valore, procurare la somma richiesta. Non ci pensò due volte: prese il vestito e lo regalò alla poveretta, consigliandole di venderlo.

Quello stesso giorno il conte Pietro le chiese di accompagnarlo ad una festa ed espresse il desiderio che indossasse, almeno quella volta, il vestito che le aveva regalato. Lucia rimase confusa ed interdetta a quella proposta e, mentre si preparava nella sua stanza, stava pensando al discorso da fare al conte per giustificare di non avere indossato quel vestito quando, con grande meraviglia vide nel guardaroba che era appeso al suo posto.

La meraviglia fu poi più grande ancora quando seppe, per mezzo di Padre Martino da Tivoli, che la donna , a cui lei aveva donato il vestito e che lo aveva in casa in attesa di trovare un compratore, quando andò a prenderlo, al posto suo trovò il denaro sufficiente per il riscatto del marito.

La nostra Beata si distinse, a testimonianza dei suoi agiografi,, per la generosità con cui rispondeva alle richieste di aiuto dei poveri. La fama di questa sua munificenza si era sparsa dovunque, anche nel contado narnese ed anche di là, venivano diverse persone a bussare alla sua porta.

Era comunemente chiamata " la madre dei poveri " e veniva indicata con questo appellativo, tanto nella città che nel contado. La sua casa era aperta tutti, per tutti c’era pane e il necessario per vivere, e lei dispensava senza lesinare sulla misura.

Il conte, nonostante i borbotti dei parenti, i quali temevano che dilapidasse il suo patrimonio, la lasciava fare e le concedeva la più ampia libertà. Sperava sempre che Lucia un giorno avrebbe ripensato alle sue decisioni e si sarebbe comportata come una sposa comune, anche per compensarlo della sua accondiscendenza ai suoi programmi di beneficenza.

Negli anni 1493-94 ci fu anche una terribile carestia, conseguenza del passaggio di eserciti che facevano larghe scorribande e razzie.

Il conte pensò che fosse giunto il momento di indurre la sposa a moderarsi nella sua prodigalità e cominciò a richiamarla. Lucia si trovò veramente in difficoltà, perché numerose erano le richieste di aiuto e diventavano sproporzionate alle riserve che c’erano nella sua casa.

Si industriava in tutti i modi e giunse persino a vegliare la notte, aiutata dalle domestiche più fedeli, per preparare il pane che spesso lei stessa portava ai poveri. Agendo col massimo riserbo, portò il suo soccorso anche a famiglie di agiata condizione che gli avvenimenti avevano portato in rovina. Lo faceva con tanta discrezione perché non voleva umiliare nessuno per lo stato in cui si era venuto a trovare.

Non fu però solo questione di pane, ma salvò anche tante giovinette, che l’indigenza stava spingendo sulle strade della perversione, venendo loro incontro con doni, denaro e corredo.

In tutta questa opera non si risparmiò nemmeno fisicamente, ed arrivava anche a scendere con le sue ancelle, e con le altre donne del popolo, fino alle sponde del Nera per lavare i panni dei malati e di quelli che non si potevano più muovere.

Intanto altre prove dure per Lucia, la quale era sempre ferma nel suo proposito di mantenere fede alla consacrazione a Dio e costante nelle azioni benefiche.

Si avvicinava infatti un momento decisivo della prova.

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V

 

L’EPILOGO DELLA SUA VITA MATRIMONIALE

E IL SUO SOGNO DI CONSACRAZIONE A DIO

Era inevitabile che la situazione dei due sposi non venisse a conoscersi fuori del palazzo in cui abitavano, suscitando la meraviglia dell’ambiente cittadino. Dopo un po’ di tempo, osservando attentamente il comportamento degli sposi, si cominciò a notare una certa singolarità da parte di parenti, amici e conoscenti, tanto che venivano spontanei diversi interrogativi e conseguenti commenti.

Si aggiungeva certamente a questo, anche il commento di qualche nobildonna più pettegola e indiscreta, la rivelazione sfuggita a qualche servo e, forse, qualche confidenza del conte con qualche amico.

Il fatto sta, che si cominciarono a fare i commenti più diversi sulla situazione del conte Pietro, dei suoi problemi familiari e di quelli economici, quasi che la contessa dilapidasse il patrimonio con le sue elemosine. Qualcuno degli amici infine non mancava di importunarlo con domande indiscrete.

Inoltre la giovane contessa più volte, quando si trovava in chiesa, veniva rapita in estasi e rimaneva assorta, estranea all’ambiente che la circondava, fino ad assumere atteggiamenti che coloro che osservavano non riuscivano a capire, tanto è vero che qualcuno cominciò a pensare che fosse soggetta ad allucinazioni, perfino ad ossessione diabolica, oppure ad attacchi di epilessia.

Le cose erano molto strane e qualcuno si limitava a compatire il conte, altri invece si premuravano di consigliarlo a separarsi da lei, per salvaguardare la sua dignità. Tanti, anche tra gli amici più intimi, non mancarono di deriderlo, facendo della sua situazione l’oggetto di racconti nei salotti, mentre le ciarle si diffondevano a macchia d’olio.

La conseguenza di tutto questo fu un cambiamento di comportamento da parte del conte il quale, mentre prima reagiva con aspre parole di fronte alle osservazioni che gli venivano fatte, ora cominciava a sfogarsi con la sposa, insultandola e maltrattandola.

La situazione era diventata insostenibile. Lucia era inflessibile nel suo proposito, perché il riconoscimento del suo voto era stata la condizione posta al suo matrimonio e il conte l’aveva accettata, esigeva quindi il rispetto dei patti. E’ vero, purtroppo, che per lui quell’accettazione non era stata che una manifestazione del suo amore, ma poi sperava di ottenere da lei quello che ogni sposo si attende. Vista però l’inefficacia di ogni comportamento dolce, il conte era passato all’attacco credendo di poterla piegare con la forza.

Ed ecco un episodio che sconvolse Pietro fino all’esasperazione.

Una sera si accorse che Lucia non era in casa, pensò che fosse uscita per andare dalla mamma, però dopo qualche tempo,essendo la notte inoltrata, cominciò a farla cercare, ma invano. Si andò per la città, a casa dei poveri che lei assisteva, a casa dei malati che potevano aver avuto bisogno di lei, ma tutto si rivelò inutile.

Tra i tanti luoghi dove si tentò di ricercarla, monasteri, conventi, si pensò ad un eremo dei frati francescani nella montagna sopra Stifone, chiamato ancora S. Giovanni dei Frati. In quel luogo, forse, è da supporre che Lucia si sarebbe recata altre volte per trovare un po’ di solitudine. Vi era andata, infatti, indossando abiti maschili per poter essere accolta data l’ora tarda, per cercar rifugio, ascoltare il Signore e decidere il suo comportamento.

Il conte accompagnato da alcuni servi armati, prese la strada di Porta Pietra, quella che oggi è quasi scomparsa, per scendere nella gola del Nera e raggiungere la borgata di Stifone, allora piccolo posto fluviale commerciale per Roma. Poco fuori le mura, verso il mattino, ebbe una sorpresa. Incontrò Lucia in abiti maschili accompagnata da due personaggi, uno dei quali un religioso Domenicano,che lei poi disse trattarsi di S. Domenico e S. Giovanni Battista. Infatti, avendo trovato l’eremo chiuso, si era addormentata alla porta dell’oratorio e ad una certa ora era stata svegliata dai due Santi che la stavano riaccompagnando a casa.

A quella vista, il conte rimase paralizzato non ebbe il coraggio di dare sfogo ad alcuna reazione, anche perché gli era accaduto altre volte di trovarsi davanti a personaggi strani. Al momento non parlò e si accontentò di seguire a distanza quella curiosa compagnia. Rientrò a casa dopo di lei, ma non trovò traccia dei due accompagnatori. Una grande confusione si impossessò di lui, ma vinse la sua stizza.

Le parole furono poche, ma ricorse ad un tentativo estremo: la prigione.

Si era all’inizio della Quaresima dell’anno 1494, Lucia fu rinchiusa in una stanza squallida dell’ultimo piano della casa a pane ed acqua. Fu vietato a tutto il personale della casa di avvicinarla, eccettuata una domestica che doveva provvedere a portarle il necessario e alle pulizie, inoltre fu proibito di introdurre estranei ed in particolar modo la mamma e i suoi familiari.

Pietro la liberò solo verso la Pasqua, anche perché, affetto da un grave disturbo fisico, temette che fosse una punizione del Cielo per aver trattato tanto male la sua giovane sposa. Il giorno di Pasqua le permise di recarsi nella chiesa di S. Domenico per le devozioni.

Lucia decise di non tornare più a casa dello sposo, ma andò in quella della madre.

Il conte ne rimase molto rattristato, ma non ebbe alcuna reazione, pensando che fosse una decisione momentanea e pazientò. Egli, infatti, aveva ancora fiducia che, lasciandola tranquilla, Lucia rivedesse la sua decisione e, messa in condizione di agire con maggiore calma, ritornasse da lui. Ma alla fine quella situazione, che durava ormai da quattro anni, si rivelò impossibile a risolversi e si pose termine ad uno stato, dal quale, tanto il conte che Lucia, desideravano di poter un giorno uscire, anche se ognuno aveva pensato ad una soluzione diversa.

Per il conte fu una vera delusione, perché non avrebbe mai creduto che quella giovinetta così dolce, che appariva tanto fragile, fosse talmente ferma nelle sue decisioni da prendere quella soluzione. Lucia aveva espresso chiaramente le condizioni per accettare quel matrimonio ed era sincera, ma non sapeva capacitarsi come Pietro fosse venuto meno ai suoi impegni di rispettare la sua consacrazione a Dio, di cui lei lo aveva messo al corrente e che aveva accettato.

Lucia, per porre fine ad ogni incertezza chiese a Padre Martino l’abito di Terziaria Domenicana, ma questi, molto prudentemente, la consigliò di attendere per non irritare di più il marito. Le preghiere, le insistenze, gli inviti ed infine le minacce del conte non valsero a nulla per smuoverla dal suo proposito.

Nel giorno dell’Ascensione, 8 maggio 1394, Padre Martino le concesse l’abito di Terziaria Domenicana.

Pur dispiaciuta di essere stata costretta ad agire così bruscamente, e di aver recato dispiacere al conte, per il quale provava affetto e, nello stesso tempo, era rammaricata che egli non avesse compreso l’importanza del fatto, si sentiva però sicura di compiere al volontà di Dio. Lucia finalmente si sentì felice di aver raggiunto il suo scopo, mantenere fede alla sua consacrazione in perpetuo al Signore, anche se c’era in lei un certo disagio per il modo in cui si era conclusa la vicenda.

Lucia aveva sempre sperato che il suo sposo si fosse convinto che lei non poteva recedere dall’impegno con Dio. Tuttavia, la sua serenità durò poco perché la maggior parte dei parenti ed anche i suoi fratelli, le si misero contro; temevano, infatti, le conseguenze della reazione del conte Pietro, il quale rimaneva sempre nella città una persona influente per il suo prestigio, quindi avrebbe potuto loro nuocere.

Infatti egli, sentendosi contrariato da tutto l’insieme delle cose, e forse preso anche in giro dai suoi amici, si sfogò verso il Padre Martino da Tivoli che, come i parenti di Lucia, riteneva responsabile di ciò che era avvenuto e tentò perfino di appiccare il fuoco al convento.

La situazione era divenne insostenibile. La mamma, gli zii e i fratelli si adoperavano affinché lasciasse Narni e si ritirasse a Roma. I superiori dell’Ordine la destinarono spedirono presso la casa delle Terziarie Domenicane nella parrocchia di S. Eustachio, oggi in via S. Chiara. Era la casa dove era morta S. Caterina da Siena nel 1480, nella quale ancora oggi esiste un bassorilievo che riproduce l’immagine della Beata Lucia con la scritta in latino: La Beata Lucia da Narni ospite di questa casa.

La permanenza a Roma durò solo qualche mese, ma fu sufficiente alle consorelle e ad altre persone, per ammirare la sua profonda pietà, la sua dolcezza e la santità che confermavano la fama che l’aveva preceduta. Alcuni mesi dopo, Suor Lucia fu mandata a Viterbo insieme ad altre consorelle, incaricate di riformare il monastero dell’ordine.

La decisione era stata presa dal P. Maestro, Matteo da Ragusa, che voleva dare maggior stabilità a quel monastero, ma era d’accordo anche con lo zio di Lucia, Domenico da Narni, datario apostolico, il quale desiderava che la nipote stesse più tranquilla. Era il gennaio 1496 e Lucia aveva da poco compiuto 19 anni.

A Viterbo, quelli che l’avvicinarono notarono subito la sua santità e, al suo contatto, ebbero la conferma delle notizie, che erano giunte da Narni e da Roma, che riferivano di Lucia i molti fatti straordinari che si erano compiuti in lei e la presentavano come dotata di eccezionali carismi. Poterono tutti apprezzare la molteplicità dei doni soprannaturali di cui era stata arricchita, la sua pietà, la scrupolosa osservanza delle regole, la carità e la dolcezza verso tutti.

Era particolarmente dedicata alla preghiera, alla meditazione, alla penitenza. La contemplazione del mistero della Passione e Morte del Signore, la teneva legata per ore intere e qualche volta anche per giornate. S. Caterina da Siena continuava ad essere la sua maestra preferita.

Contemplando la Passione del Signore, Lucia dava sempre segni di partecipazione sensibile, completa, ai Suoi dolori. I digiuni si succedevano ai digiuni, tanto che il Padre confessore e i Superiori le imposero di mettere un limite a certi eccessi.

La santa Comunione diventava, spesse volte, l’unico nutrimento della giornata e sovente per settimane intere.

Delle sue estasi erano spesso spettatori anche diversi fedeli che partecipavano alle sacre celebrazioni del Santuario di Santa Maria della Quercia e di Santa Maria in Gradi, dove le monache si recavano per la S. Messa.

Erano frequenti per lei, come di consueto, le visioni di S. Domenico, di S. Caterina e di altri santi.

Ma, nonostante questi momenti che attiravano su di lei ammirazione e venerazione da parte delle suore e delle persone che l’avvicinavano, si comportava con tanta semplicità con tutti che meravigliava e accresceva la stima di coloro con cui entrava in contatto. Era dolce e comprensiva e chiunque si fosse rivolto a lei, riceveva un consiglio prudente e sereno e rimaneva incantato per tanta sapienza, tenendo conto della sua giovane età.

Ma il Signore ancora le doveva riservare un lungo cammino verso la luce, contraddistinto dalla croce.

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VI

 

LE STIMMATE

 

La meditazione sulla Passione del Signore la commuoveva ed entusiasmava fin da quando era adolescente.

A Narni, nella chiesa di S. Domenico al primo pilastro di destra c’è un dipinto del 1400, affresco di scuola locale, che rappresenta il Crocifisso.

Narrano i contemporanei della Beata, che davanti a quell’immagine si fermava a pregare e a meditare, spesso rimaneva assorta e il pensiero della Passione di Gesù le faceva dimenticare il mondo che la circondava a tal punto che, spesso la dovevano scuotere per richiamarla alla realtà. La devozione al Crocifisso e la meditazione della Passione di Gesù la assorbivano in modo tale, che si tratteneva lungamente in colloquio e in contemplazione del Divino Maestro.

Nella sua permanenza a Viterbo, narrano i biografi, il pensiero della Passione la faceva partecipare al dramma della via dolorosa, della crocifissione del Salvatore e dei Suoi dolori in modo anche sensibile che spesso gemeva e mostrava i segni della sofferenza.

(Nella Basilica di S. Maria della Quercia a Viterbo c’è ancora il Crocifisso davanti al quale la Beata si fermava a pregare, come ad Arezzo nel monastero delle Domenicane, c’è un Crocifisso che stava nella chiesa del monastero di S. Tommaso a Viterbo davanti al quale andò in estasi e ricevette le stimmate.)

Si raccomandava a S. Caterina da Siena, perché la guidasse sulla via dolorosa percorsa da Gesù e di Lei, amante del Salvatore sofferente, aveva fatto il suo modello. Veramente la Santa le ottenne dal Signore, che le rassomigliasse anche nella partecipazione alla Passione del Maestro Divino.

Il 24 febbraio 1496 circa le ore 02, le monache erano raccolte per la recita del mattutino nella loro Cappella. Come tutte le consorelle, Lucia non comprendeva il latino ma, nonostante ciò, sotto l’azione dello Spirito Santo, la sua mente veniva illuminata e penetrava il senso delle divine scritture. Quella sera si recitava il salmo 88: " Canterò per sempre le grazie del Signore", un salmo messianico, nel quale si ricorda al Signore le promesse fatte a Davide circa la continuazione del suo regno.

Il salmista poi profetizza che, se i discendenti, i figli del regno, avessero abbandonato i precetti del Signore, Egli riavrebbe raggiunti con la verga e castigati per i loro peccati. Ma Dio, è Dio di misericordia e, ai versetti 32 e segg., si ricorda che Egli attua la salvezza e viene annunciata la Sua opera nei suoi dettagli. Il salmo descrive il dono che Dio avrebbe fatto per mezzo del Suo figlio, che avrebbe affrontato i patimenti per riscattare l’umanità e soddisfare la giustizia del Padre.

Mentre le monache ripetevano le parole profetiche del salmista, suor Lucia rimase con lo sguardo fisso nel vuoto, fuori di sé, con i segni del dolore e dello spasimo impressi sul volto, si abbandonò nel suo stallo del coro perdendo i sensi.

Le consorelle, che erano in parte abituate a quei momenti, continuarono nella preghiera prese dal rispetto per quel momento così solenne, temendo quasi di distrarla dal colloquio intimo col Signore, conquistate anch’esse dalla straordinarietà del fatto. La recita del mattutino fu portata alla fine tra al commozione generale, che aumentava fino a strappare le lacrime di tutte, contemplando quella scena di portata straordinaria.

Suor Diambra, una suora che la Madre Priora aveva messo accanto a lei perché le fosse d’aiuto, vigilasse affettuosamente su di lei, e che la seguì anche quando la Beata fu trasferita a Ferrara, rimase con lei mentre le suore si erano ritirate nei dormitori. Come sempre cercò di non perdere quei momenti, annotando tutte le espressioni e tutti i suoi atteggiamenti.

Ad un certo momento, narra la pia suora, suor Lucia si risollevò, inginocchiandosi verso oriente; mormorava delle frasi che descrivevano i vari momenti della Passione del Signore, parlava affannosamente, singhiozzava, tremava, poi, con il pallore della morte, si abbandonò di nuovo tanto che fece temere che fosse morta. Emise poi un grido invocando il Signore perché imprimesse anche sulle sue membra i segni della Passione.

L’estasi si protrasse fino alle 9 del mattino seguente, 25 febbraio, 2° venerdì di Quaresima. Si riebbe, si rialzò in piedi e, quasi barcollante, volle andare accompagnata da suor Diambra, alla chiesa di Santa Maria in Gradi per partecipare alla santa Messa.

Suor Diambra racconta che, rientrando a casa dopo la Messa, notò sulle sue mani due tumefazioni arrossate e livide nel mezzo. Suor Lucia tuttavia non le fece parola di ciò, né di quello che provava, anzi si sforzava di tenere nascosti quei segni anche a lei, nonostante che abitualmente le confidasse tutto quello che accadeva. Le fu però possibile tenere nascosto il fatto solo per poco tempo, fino alla settimana santa.

Allora infatti il dolore fu tanto forte, e la prostrò talmente, che le consorelle temettero che fosse giunta alla sua ultima ora. Erano convinte infatti che l’umile suora fosse già matura per il cielo. Si premurarono perciò di avvertire i suoi familiari che accorsero a Viterbo.

Giunsero presto la mamma ed altri parenti accompagnati da Padre Martino da Tivoli. Questi rimasero meravigliati e costatarono i segni delle stimmate, che erano divenute più piccoli, ma da esse usciva sangue in continuazione.

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la beata fra i domenicani in una chiesa di New York

VII

 

 

LA RISONANZA DELL’AVVENIMENTO

L’ATTEGGIAMENTO DELL’AUTORITA’ ECCLESIASTICA

TESTIMONIANZE E PROCESSI

Il fatto accaduto tra le mura del monastero, nella notte tra il 24 e il 25 febbraio del 1496, non poteva rimanere nascosto per tanti motivi, anche se la prudenza consigliava di non essere precipitosi nel valutare certi fenomeni.

Lucia era spesso rapita in estasi e, durante l’estasi, dava segni di grande sofferenza; quando ritornava in sé rimaneva taciturna e continuava ad essere assorta su quanto aveva contemplato e vissuto in quei momenti che spesso duravano ore. Adesso c’erano dei segni sulle sue mani e i suoi piedi, ed una sofferenza fisica che non riusciva a nascondere anche se non diceva nulla.

Si aggiunse poi che ogni mercoledì ed ogni venerdì, quelle tumefazioni delle mani e dei piedi sanguinavano abbondantemente e nel camminare era claudicante tanto che in quei giorni non poteva uscire di casa per la S. Messa.

Le persone che partecipavano alla S. Messa alla Basilica della Quercia a S. Maria in Gradi, cominciavano a far domande. La Priora aveva avvertito i Superiori. Certamente la stima per Lucia era tanto grande che tutti, religiose e popolo, capirono subito che si trattava di un fatto straordinario. Ma le disposizioni canoniche erano rigide, anche perché si era in un’epoca nella quale occorrevano argomenti sicuri per dare valutazioni certe ad alcuni fenomeni, e c’era da far fronte a tanti movimenti di stregoneria e di magia.

Allora avvenne che, mentre da una parte l’evento aveva suscitato tanto interesse nei riguardi di suor Lucia, dall’altra per lei diventò motivo di tormento che turbava il suo desiderio di nascondimento. L’Autorità Ecclesiastica, intanto, per i motivi sopra detti, per la prudenza necessaria in simili casi e per appurare che si trattasse di un fatto veramente soprannaturale, dispose i soliti controlli severissimi.

Accade spesso però che questi interventi, condotti con metodo fiscale e per la poca carità e per la ruvidità delle persone incaricate di eseguirli, diventino motivo di vera e profonda sofferenza per chi li deve subire.

E questo avvenne proprio a suor Lucia.

Il primo esame fu fatto da una commissione presieduta dal Vescovo di Castro, accompagnato da medici, giuristi, cavalieri e gentiluomini, i quali si recarono nel monastero, presente anche il confessore di suor Lucia. La chiamarono alla loro presenza, la interrogarono e qualcuno non mancò di trattarla come una visionaria. Fu dato ordine di fasciare le ferite e apposero i sigilli sulla fasciatura, con la proibizione assoluta che fossero fatte medicazioni fino a nuovo ordine.

Il dolore cominciò però ad aumentare ogni giorno di più, specialmente il mercoledì e il venerdì.

Lucia soffriva terribilmente, tanto che le monache si decisero a chiedere al Vescovo di Castro di aver pietà della loro consorella. Ottennero così il permesso di togliere i sigilli e la fasciatura e, se necessario, medicare le ferite, ma esse non davano alcun segno di putrefazione. Le cure però non fecero diminuire il dolore né attenuare il flusso del sangue che usciva sempre abbondantemente.

Nonostante che la maggior parte di quelli che avevano assistito agli esami fossero convinti del carattere soprannaturale di quella manifestazione, ci furono alcuni che rimanevano ancora scettici. Il Signore tuttavia provvide a garantire la verità del prodigio con altri fatti straordinari, avvenuti attraverso il carisma della profezia di cui l’aveva dotata ed altri fatti prodigiosi.

Delle stimmate della Beata Lucia si è scritto molto e le testimonianze sono state tante, anzi i processi continuarono per diversi anni.

La notizia intanto si diffondeva un po’ dovunque.

Una testimonianza che merita di essere ricordata è quella di un’altra santa religiosa dell’ordine delle Domenicane, la Beata Colomba Guadagnoli, conosciuta come la Beata Colomba da Rieti. E’ così chiamata perché era nata a Rieti nel 1467, nove anni prima della Beata Lucia.

Era figlia di un tale Angelo Guadagnali di Collescipoli, della diocesi di Narni, il quale si era recato a Rieti per lavoro intorno al 1464. Ivi aveva conosciuto e sposato una pia giovane, dalla quale ebbe una figlia che volle chiamare Colomba. Questa, giovanissima, aveva preso l’abito Domenicano.

Tra Colomba e Lucia, anche se si sono incontrate forse una sola volta, era sorta una vera amicizia e una stima reciproca assai profonda.

Nel 1493, la Beata Colomba fu nominata Priora di un nuovo monastero domenicano a Perugia, poi chiamato, in memoria di lei, il monastero della Beata Colomba che ancora esiste.

Quando parlava della Beata Lucia, suor Colomba usava sempre teneri accenti e la chiamava: la mia sorella. E fu proprio la Beata Colomba, da Perugia, a testimoniare il privilegio delle stimmate di suor Lucia, quando ancora la notizia non era diffusa affatto e sembra che avesse chiesto di potersi recare a Viterbo in pellegrinaggio, per venerare la Madonna della Quercia e per poter vedere anche la cara sorella.

I biografi però non parlano esplicitamente di un incontro tra le due sante, ma tanto il De Ganay che il P. Granello, fondandosi sulle testimonianze del processo di Beatificazione, confermano che tra le due sante creature, figlie ambedue di S. Domenico, ci fosse una grande venerazione reciproca e sembra che il Signore rivelasse all’una i segreti dell’altra.

Durante un viaggio di ritorno da Viterbo a Perugia, la Beata Colomba passò per Narni e, nonostante nessuno sapesse nulla, grande fu la meraviglia quando tutta la popolazione si trovò riunita dove alloggiava, per farle festa. Ella partì allora quasi di nascosto prima dell’alba, ed era ancora notte quando passò a Collescipoli. Qui volle rivedere i luoghi dell’infanzia, dove la portava il suo papà, perché potesse trascorrere qualche giorno con i nonni paterni.

Il P. Granello parla di un tale di nome Carletto, che interrogò la suora sulle stimmate e sui fatti meravigliosi che si narravano della Beata Lucia e lei rispose: "Mi rallegro assai del profitto della mia sorella, suor Lucia, perché questi sono contrassegni della carità di Dio". Ad un’altra persona, che la invitava a raccomandarsi alle preghiere di Lucia disse: "Vattene da suor Lucia, la quale tiene più sicuri i vestigi di Cristo". Ed ancora, ad un altro che le chiese di scrivergli una lettera per la Beata Lucia, si rifiutò dicendo di non poter infastidire le ancelle del Signore ripiene di doni grandi.

Parlando delle stimmate di Lucia, la Beata Colomba diceva che erano il sigillo della carità, imporporato dal sangue della penitenza, approfondito dalle forze dell’amore. (De Ganay)

Il governatore di Viterbo, nonostante il primo esame e la prima documentazione che era stata raccolta, chiese di esaminare personalmente le stimmate e lo fece alla presenza dei religiosi, dell’inquisitore e di un medico. Ma poco dopo che il Governatore aveva cominciato a farle qualche domanda, suor Lucia, essendo mercoledì e come ormai accadeva da tempo, fu rapita in estasi e rimase fuori dai sensi a lungo, tanto che i presenti dovettero lasciare il monastero insoddisfatti.

Nel 1497, il 23 aprile, su richiesta del Santo Uffizio, si procedette ad un nuovo approfondito esame: era il terzo. Esso avvenne alla presenza del vescovo di Castro, di uno dei più autorevoli religiosi domenicani, di giuristi, di due priori ed altri magistrati, oltre ad un medico notissimo dell’epoca e di altri nobili di Viterbo e fu condotto dall’inquisitore della sede apostolica Fr. Domenico da Gargnano.

La Beata rispose ancora una volta con semplicità alle domande dell’inquisitore, narrando la successione dei fatti e le suore confermarono quanto aveva detto.

Il pubblico notaro apostolico Egidio da Viterbo, ha redatto l’atto pubblico con la descrizione particolareggiata dell’esame. L’atto fu controfirmato dai Priori della città il giorno 27 aprile successivo ed è conservato nella Biblioteca Vaticana.

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VIII

INTERESSAMENTO DI ALESSANDRO VI

 

Il Papa Alessandro VI, venuto a conoscenza di quei fatti straordinari, volle rendersi conto direttamente del prodigio, anche perché ancora, specialmente a Roma, c’erano molti che ne diffidavano. Mandò a Viterbo intanto una commissione di persone di fiducia, tra i quali il suo medico personale Bernardo Bongiovanni da Recanati, che fu poi Vescovo di Venosa, un Vescovo francescano e il Maestro del palazzo apostolico, che era un religioso domenicano e consultore del Santo Uffizio.

Le stimmate furono lavate, poi fasciate e sigillate, con il divieto di rompere i sigilli per nessun motivo.

Nove giorni dopo, i commissari ritornarono nel monastero e, costatata l’integrità dei sigilli, tolsero le bende e trovarono le ferite rosee e fresche, sanguinanti come le avevano fasciate e senza segni di infezione, inevitabile nei casi di una ferita trascurata. Nella relazione dichiararono di riferire dettagliatamente quello che avevano sentito dire e costatato della santità di Lucia.

Il 18 gennaio 1498 il Papa mandò ai Priori di Viterbo un breve apostolico, ordinando che suor Lucia fosse inviata a Roma al suo cospetto. I magistrati di Viterbo si premurarono di adempiere a quanto richiesto dal Papa e suor Lucia, accompagnata da suor Diambra che la seguiva dal 1496 in ogni suo movimento, partì alla volta di Roma.

Buona parte dei biografi è concorde nel riferire il particolare di suor Lucia che venne a Roma, accompagnata da suor Diambra, che era la sua confidente. Il Papa chiamò la suora in disparte e si fece raccontare tutto quanto era avvenuto dal 25 febbraio 1496. suor Diambra, con semplicità, raccontò dettagliatamente tutto quello che era accaduto e che lei stessa aveva costatato. Narrò al Pontefice come era voce comune tra i viterbesi, che Lucia fosse una creatura eccezionale, che tutti ritenevano una santa.

Il Papa raccomandò a Lucia la sua persona e la chiesa e le diede ordine di ritornare a Viterbo.

Non tutti, però, sono concordi nell’ammettere la storicità di questo incontro del Papa con la Beata Lucia perché i documenti non sono troppo chiari. Esiste la lettera del Papa, ma esiste anche la documentazione della reazione dei viterbesi, i quali già erano in allarme per il permesso accordato dal Papa per il trasferimento di suor Lucia a Ferrara. L’atteggiamento però del Papa, nell’aderire alla richiesta del Duca di Ferrara di avere nella sua città la Beata Lucia, gli interventi e le concessioni che fece anche personalmente alla Beata, sono una prova della stima che aveva per lei.

Poco dopo il ritorno da Roma di suor Lucia, si presentò al monastero di Viterbo delle Domenicane, un giovane gentiluomo che chiese di parlare con lei. Era accompagnato da altri due signori, forse di Viterbo.

Fu un incontro veramente particolare, ritrattava infatti del conte Pietro il suo sposo. Egli conosciuti i fatti straordinari di cui Lucia era stata protagonista, ha voluto incontrarla. Tutto quello che aveva sentito dire di lei lo aveva sconvolto, voleva rendersene conto di persona, desiderava dirle tante cose. Voleva che fosse annullato un passato.

Lucia lo accolse con dolcezza e parlarono a lungo, non si sa che cosa abbiano detto tra loro. Forse senza alcun accenno al passato, il colloquio ebbe per argomento solo il presente ed il futuro.

La dolcezza di quell’incontro portò certo in lui tanta pace interiore e gli rivelò un nuovo orizzonte. Si salutarono impegnandosi a rimanere uniti nella preghiera e a vivere in un amore più grande.

Ritornato a Narni, il conte vendette tutta la sua proprietà e si ritirò in un convento francescano.

Anche questo episodio fu prova di predilezione da parte del Signore, che compensava i dolori e le prove sostenute da Lucia.

Il conte, divenuto religioso, condusse una santa vita, fu predicatore valente e morì nel concetto di santità nel settembre del 1544, appena un mese e mezzo prima della beata.

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IX

A FERRARA

 

A Narni, Viterbo, Roma e in tutte le città dell’Umbria e del Lazio, dove si trovavano i religiosi e le religiose domenicane, si era facilmente diffusa la notizia delle cose straordinarie che si verificavano intorno a quella giovane suora di Narni, che veniva da Viterbo. Ma certi fatti erano tanto prodigiosi che la loro fama varcò presto i confini dello Stato Pontificio e si diffuse in altre regioni d’Italia.

Arrivarono a conoscenza del Duca di Ferrara Ercole I d’Este il quale, ardentemente, desiderava di avere una personalità di spiccata santità a cui affidare un’importante opera di carattere religioso, che era sua intenzione di istituire.

La famiglia d’Este era tra le più importanti Signorie che allora dominavano in Italia.

Le sue origini risalivano al sec. X discendendo da un capostipite, Alberto Azzo, figlio di Oberto, creato Conte Palatino dall’Imperatore Ottone I. si era stabilita ad Este, località del Veneto e da essa aveva avuto la denominazione.

Nel sec. XIII i discendenti di questa famiglia avevano avuto la Signoria di Ferrara e, dopo un periodo di alterne vicende, anche quella di Modena, Reggio e Rovigo. Nel sec. XV il Duca Nicolò III consolidò la stabilità della famiglia nei suoi domini.

I suoi eredi, continuando la sua opera seguendo i suoi metodi, emulando i Signori contemporanei, fecero di Ferrara una città centro di cultura e di arte.

Il figlio Duca Ercole successe a lui nel 1471. All’inizio non era stato facile per lui mantenere la calma e la pace nella città, ma poi, destreggiandosi con abile diplomazia, riuscì a mettere le cose a posto. Egli era profondamente religioso e, come avveniva tra i Signori dell’epoca, cercava di compensare certe cose poco lodevoli con opere religiose ed istituzioni varie.

Per l’amore che il Duca aveva verso le scienze e l’arte, aveva reso la sua corte protettrice di personaggi che tenevano alto il livello culturale, tanto da passare alla storia come uno dei mecenati più illustri del momento. Desiderava però dedicare la sua attività, anche ad una particolare istituzione religiosa.

Il suo ducato si trovava sempre in una situazione molto delicata, per il vicinato sia del nord che del sud dove c’erano personaggi i quali tendevano ad affermare il loro dominio. Sentiva anche il bisogno di avere vicino un’anima pia, che fosse accetta a Dio per la sua santità di vita e con le sue preghiere, fosse garanzia di sicurezza per il ducato.

Ma oltre le doti di particolare santità, egli desiderava una persona che fosse anche prudente, che lo aiutasse con il consiglio, specialmente quando doveva prendere alcune decisioni e che, in particolari momenti, avesse per lui una parola buona per sostenerlo moralmente e lo aiutasse a risolvere certi problemi non tanto rari.

Questo non era il pensiero solo di Ercole I d’Este, ma lo era anche di diversi signorotti dell’epoca, quali i Gonzaga di Mantova con la B. Osanna, i Baglioni con la B. Colomba da Rieti. Essi avevano l’ambizione di circondarsi, oltre che di celebrità dell’arte, della cultura, della scienza e dell’arte militare, anche di persone pie che con la loro preghiera rendessero valide tutte le attività del ducato.

Creavano apposta opere pie, monasteri, pie istituzioni, e, con esse, volevano in qualche modo compensare anche gli sfruttamenti e le prepotenze che spesso sovrabbondavano nel loro sistema politico.

Ercole i si rivolse perciò al Papa Alessandro VI, chiedendo l’invio a Ferrara di quella suora straordinaria di cui aveva sentito parlare, impegnandosi a costruire e dotare un nuovo monastero.

Il Papa scrisse una lettera al Generale dei Domenicani nel 1498, ordinando che suor Lucia partisse per Ferrara, e una lettera al Duca, dichiarando che aveva aderito alla sua richiesta. Scrisse anche alla magistratura di Viterbo, perché non si opponesse alla partenza della beata, cosa prevedibile, perché quando si manifestavano certi fatti straordinari, la persona privilegiata di particolari doni di Dio, diventava una delle glorie della città ed era considerata un dono del Signore da custodire gelosamente.

Appena si sparse la notizia che suor Lucia doveva partire da Viterbo, successe quello che si temeva: nella città ci fu una reazione molto decisa che convinse i responsabili a rimandare l’attuazione del provvedimento. Si tentò in tutti i modi, ma per tutta risposta i viterbesi raddoppiarono la vigilanza alle porte della città. Essi consideravano Lucia un vanto della loro città, la ritenevano una santa e non volevano permettere che Viterbo fosse privata della sua presenza.

A nulla valse nemmeno la minaccia di scomunica da parte del Papa per la città e la magistratura.

Fu tanta l’ostinazione dei viterbesi, che addirittura si cominciò a parlare di uccidere perfino la Beata, piuttosto che lasciarla partire. Il fanatismo faceva pensare che anziché farla andare via fosse preferibile averne la tomba.

La corrispondenza fra il Papa e il Duca fu intensa, si mossero tanti personaggi, oltre il Cardinale Ippolito d’Este, il Cardinale Sforza, il Generale dei Domenicani e il Segretario del Papa, Filino Spandei.

Intanto venne verso Viterbo, vicino ad Orte, un gruppo di armati del Duca guidato dal Capitano degli Alabardieri Alessandro Fiorani.

Il Papa allora scrisse una lettera molto dura ai viterbesi, minacciando la scomunica se si fossero opposti alla partenza di Lucia per Ferrara e, volendo ascoltare suor Lucia per conoscerne il pensiero, la convocò a Roma. Ma fu impossibile farla uscire da Viterbo, perché le porte della città erano così ben sorvegliate, che era impossibile agli estranei avvicinarsi al monastero.

Finalmente il Segretario del Papa trovò la soluzione, riuscì a convincere il Governatore di Viterbo a non fare più opposizione.

Lucia, nascosta in mezzo a delle ceste di biancheria, poté lasciare la città e, passando per Narni, solo dopo due anni, scortata dai soldati del Duca, il 14 aprile 1499, intraprese il viaggio per Ferrara che durò 23 giorni e fu molto disagiato. Accompagnarono la Beata, la mamma Gentilina, una sua cugina, suor Orsola, anch’essa Terziaria Domenicana, fra Cristoforo Boccacerasa Viterbese.

Giunse a Ferrara il 7 maggio 1499.

Il Duca Ercole aveva predisposto accoglienze principesche, era presente tutta la corte e il Duca dimostrò alla giovane suora tanta stima e devozione, che tutti si meravigliarono e suor Lucia ne rimase veramente confusa.

A lei intanto, era stato rivelato dal cielo quanto avrebbe dovuto soffrire in questa nuova sede e nel nuovo incarico.

Il Duca personalmente la accompagnò nella dimora provvisoria, dove sarebbe rimasta in attesa che fossero stati ultimati i lavori del nuovo monastero.

L’attese subito però un grande dolore, la giovane cugina suor Orsola, che l’aveva seguita da Narni, tre giorni dopo l’arrivo a Ferrara, prostrata dai disagi del viaggio, si ammalò e morì. La Beata soffrì tanto per questa perdita, perché la giovane cugina le era stata tanto vicina in momenti particolari di prova. Nonostante fosse più giovane di lei, l’aveva confortata sia con le parole che con le attenzioni, l’aveva seguita con tanto amore e desiderava di esserle vicina per imparare da lei come corrispondere alla vocazione religiosa.

Il Signore compensò questo dolore, mandandole in quei primi giorni di permanenza a Ferrara, le prime 13 giovinette piene di entusiasmo e desiderose di abbracciare la vita religiosa. Ad esse rivolse subito tutte le attenzioni guadagnando la loro stima e la loro fiducia, dimostrandosi per loro sorella e madre affettuosa.

Intanto il nuovo monastero cresceva e andava verso il suo completamento.

Tra le prime religiose entrate nel 1501 merita di essere ricordata suor Beatrice da Ferrara, la quale si affidò particolarmente alla sua guida e rimase a lei legata fino alla morte che la raggiunse ancora giovane.

Aumenta ancora il numero delle suore, tanto che il Duca, dopo qualche mese dovette provvedere ad una abitazione, sia pure provvisoria ma più ampia, in attesa che il monastero fosse portato a termine.

Nel 1501 la costruzione fu portata a compimento e risultò veramente imponente. Venne inaugurato solennemente ed eretto canonicamente con bolla pontificia dal Papa Alessandro VI. Nella bolla di fondazione, si stabiliva che suor Lucia fosse la prima Priora e si stabiliva inoltre che, in seguito, anche se non fosse stata più eletta Priora, avrebbe dovuto avere speciali privilegi circa la direzione del monastero: avrebbe dovuto essere sempre ascoltata per ogni decisione da prendere ed avere la massima libertà di azione. Le era concesso di uscire dal monastero e di avere un parlatorio privato, per ricevere chiunque si fosse rivolto a lei.

Intanto giungono nuove suore da Viterbo e da Narni. Giunse anche suor Diambra, la suora che a Viterbo l’aveva aiutata diventando sua confidente, e, anche a Ferrara, continua ad esserle vicina ancora per diversi anni continuando a tenere aggiornato il diario iniziato a Viterbo.

La crescita un po’ forzata del monastero mostrò presto i suoi lati deboli.

Alcune suore venivano da monasteri diversi, altre erano state accettate senza troppo approfondire l’esame della loro vocazione: c’era infatti nel Duca il desiderio di rendere grande il monastero, e desiderava anche di portare la comunità a 100 suore. In tal modo gli ingressi aumentavano, ma frequenti si verificavano anche le defezioni.

Certamente non era questo il tipo di monastero quale lo sognava e lo voleva Lucia e in fondo anche lo stesso Duca, anche se il suo intento era quello di avere una grande istituzione.

L’ufficio di Priora, accettato per obbedienza al Papa e per deferenza al Duca, insigne benefattore, diventa presto per Lucia un peso che la schiaccia, pensando che non aveva ancora compiuto 25 anni. Si sfoga nella preghiera, confortata sempre dalle visioni di S. Caterina da Siena, di S. Domenico e di S. Vincenzo Ferreri. Cerca di imporsi con dolcezza e si serve con carità del dono di Dio di scrutare i cuori delle suore poco sincere.

Il Duca cerca sempre di favorire ancora la crescita del monastero, con donazioni e legati, e comanda al figlio Alfonso di continuare a garantire ad esso stabilità e rispetto per la beata. Egli frequentava il monastero assiduamente e si tratteneva in colloquio con Lucia, consigliandosi con lei su diversi problemi riguardanti il governo; portava spesso regali per il monastero, oppure donava a lei preziose reliquie, quali quella di S. Caterina da Siena e di S. Pietro Martire.

In uno di questi incontri, mentre parlava con il Duca, Lucia si interruppe, rimase qualche istante in silenzio, poi disse: "Sappiate, Signor Duca, che oggi è morta a Perugia la mia beata Madre suor Colomba da Rieti, ed è volata in cielo". Era il 20 maggio 1501.

Il Duca scrisse subito a Perugia e gli fu confermata la verità di quanto era stato visto e riferito dalla Beata.

Ad accrescere la venerazione del Duca verso la Beata Lucia, si aggiunse la guarigione, ritenuta miracolosa del figlio Alfonso, avvenuta istantaneamente al contatto con una benda macchiata del sangue delle stimmate di Lucia, che le monache gli avevano mandato. Lucia pregava intensamente per il Duca, aiutandolo e consigliandolo anche a riparare quello che c’era stato di poco buono nella sua vita.

I fatti straordinari che si riferivano a Lucia, lasciavano tanta gente stupefatta e meravigliata. In mezzo a molte persone, anche tra i superiori dell’Ordine dei Domenicani, ogni tanto però, veniva fuori qualcuno che voleva riproporre il dubbio delle stimmate. Il Duca Ercole e il figlio Cardinale Ippolito ed altri, dovettero intervenire per testimoniarne la veridicità.

Si hanno infatti lettere del Duca del 4 marzo 1500, del 23 gennaio 1501, nelle quali dichiara quanto aveva costatato circa le stimmate e la santità di Lucia. Scrivendone nel 1501 anche ai magistrati di Norimberga, parla esplicitamente di quanto egli stesso aveva potuto verificare circa la santità della Beata.

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X

 

LA SALITA DEL CALVARIO

 

Nel 1503, il 26 marzo, il Papa Alessandro VI aveva inviato un breve apostolico, col quale si dava ordine di inviare 12 suore del monastero già esistente a Ferrara del II Ordine Domenicano, dedicato a S. Caterina Martire di Alessandria, in quello di S. Caterina da Siena, dove si trovava la Beata Lucia.

La venuta di altre 12 suore che si erano aggiunte alle 72 che contava il monastero, aveva provocato nell’ambiente, che cominciava già ad essere diviso, nuovi contrasti. Infatti tra le 72 suore,chiamate le "senesi" dalla santa titolare del monastero, vi erano alcune che ritenevano la Priora troppo benevola, altre, invece, troppo rigida e si lamentavano e mormoravano, quindi con la presenza delle nuove suore la situazione si aggravò ulteriormente.

Il contrasto, infatti, al principio era dato dal fatto che alcune suore volevano una regola più rigida, mentre altre la chiedevano più mite. La presenza delle "martiri", così si chiamavano le nuove sorelle provenienti dal monastero di S. Caterina Martire, fece inasprire l’opposizione delle rigoriste che, interpretando come debolezza il metodo caritatevole, dolce e persuasivo usato da Lucia, pretesero anch’ esse che fosse adottata al regola richiesta da queste ultime.

Quello che poi dava un certo fastidio era il fatto della giovane età di Lucia, la quale aveva appena 27 anni, e ciò veniva manifestato con lamentele che si confidavano ai superiori dell’ordine e allo stesso confessore della Beata che, a poco a poco, finì per convincersi. Avvenne così che il Vicario Generale della Provincia di Lombardia dell’ordine dei Domenicani, Fra Onofrio da Parma, si persuase e fece fare le elezioni per scegliere la nuova Priora.

Venne eletta, il 2 settembre 1503 suor Maria da Parma.

Si compiva così un primo passo verso il raggiungimento della sopraffazione nei riguardi della Beata Lucia. Anche se, a norma delle costituzioni, il cambio della Superiora era ordinario nei monasteri, il momento e il modo con cui si operò dimostrarono i veri motivi della decisione, come i fatti che seguirono fecero dimenticare quanto il Papa Alessandro VI aveva disposto nel Breve di fondazione.

Mentre da una parte c’era il gruppo delle monache che si sentivano legate a suor Lucia, come alla loro maestra e guida, che l’accompagnavano amorevolmente nel cammino della santità, e rimanevano fedeli a lei, ansiose di imitarne le virtù, dall’altra c’erano quelle che sentivano la soddisfazione di una prima vittoria. Ma non si fermarono qui, cominciarono ad insinuare dubbi sulla sua santità e a riferire anche qualche menzogna, perché si dissolvesse quell’alone si santità di cui era circondata. Si limitavano però nel manifestare la loro ostilità, perché era ancora vivo il Duca Ercole, il quale aveva una stima illimitata della Beata Lucia e sapevano bene che non si poteva forzare troppo la mano, perché egli era il benefattore da cui in gran parte dipendeva la vita del monastero.

L’animo sensibile di Lucia rimase abbastanza sconvolto vedendo l’ondata glaciale che man mano avanzava, anche se ancora c’erano intorno a lei molte suore che si consideravano sue figlie spirituali, quali suor Diambra e le giovanissime suor Beatrice suor Dorotea e la mamma Gentilina che aveva preso il nome di suor Anna.

Intanto il 24 gennaio 1505, moriva il Duca Ercole e gli succedeva il figlio Alfonso, di altra natura e con altre preoccupazioni. Egli trascurò il monastero, tanto che questo venne a trovarsi anche in disagio economico.

La morte del Duca Ercole fece esplodere la contrarietà anche di qualcuna delle monache che si manteneva estranea per rispetto del Duca, il quale tanto stimava la Beata.

Cominciò allora per suor Lucia una vera segregazione, le fu imposta una suora, come una guardia del corpo, che doveva assistere a tutti i colloqui con quelli che andavano a visitarla, quindi riferire alla Priora. Fino a quel momento aveva avuto il suo parlatorio privato dove riceveva chi si rivolgeva a lei, dove aveva ascoltato tante persone e dato tanti consigli.

Le fu proibito di uscire ed infine di parlare con qualsiasi estraneo, solo la Superiora poteva derogare, sempre che fosse presente la suora incaricata della vigilanza che doveva riferire gli argomenti della conversazione.

E tutte queste disposizioni furono emanate, appena un mese più tardi dalla morte del Duca, con atto ufficiale tra il Vicario Generale dell’ordine dei Domenicani, altre personalità e la Beata Lucia, alla quale le fu imposto di sottoscrivere il documento alla presenza della Duchessa di Ferrara, Lucrezia Borgia, il 20 febbraio 1505.

In quello stato, la Beata Lucia volle assaporare fino all’ultima agonia la tristezza dell’isolamento e chiese al Signore che fosse scomparso ogni motivo di attenzione per lei, accettando questa prova per sentirsi più vicina a Dio nella Sua passione, chiedendo perfino che fossero scomparsi i segni delle stimmate.

In questo suo desiderio fu ascoltata e scomparvero quei segni prodigiosi dalle mani e dai piedi, mentre rimaneva aperta la ferita del costato e restavano il dolore e la sofferenza dei segni. In questo si sentì più vicina a S. Caterina da Siena, le cui stimmate non erano visibili.

Al principio era la Priora la persona più dura con Lucia, ma poi man mano che le suore favorevoli cominciavano a diminuire, vedendo che i segni delle mani erano scomparsi, si accentuò la calunnia e quelle anime " pie !" misero tanto zelo e tanto accanimento nel denigrare quella creatura eletta, finché non la videro ridotta quasi annientata nel nascondimento impostole.

Quando parlava, le imponevano il silenzio, dichiarandola visionaria e impostora e accusandola di stregoneria, tanto da essere riuscita ad ingannare anche il Papa, il Duca ed altri illustri personaggi. Nessuno rispettò le gravi sofferenze che ella sopportava, il suo silenzio non fece riflettere nessuno.

Era stata destinata a scomparire. Nella corte ducale, morto Ercole I, nessuno parlava più di quella suora portentosa. Di lei non giunsero più notizie in patria. Le suore a lei favorevoli erano anch’esse ridotte al silenzio e dovevano assumere un atteggiamento di indifferenza per il quieto vivere.

Questa situazione durò 39 anni.

Non si sa cosa più meravigli, se la costanza e la forza della Beata Lucia o la malignità di alcune decine di anime consacrate, che sapevano mettere insieme un’accanita persecuzione verso una consorella, con la lode di Dio.

Ma è proprio vero: Dio è meraviglioso nei suoi santi!

Tanto eroismo è un dono e una manifestazione di Dio che fa grandi le sue creature, non solo quando per mezzo di esse opera i miracoli, ma soprattutto quando le rende capaci di portare la croce di Cristo in silenzio, amando e pregando per i propri crocifissori.

E Lucia è grande perché fece suo il programma di Cristo.

Avrebbe potuto presentarsi davanti a quelle facce di bronzo delle sue consorelle, aprire la tonaca e far vedere quella ferita sanguinante del costato, ma si accontentò di soffrire e pregare per tutte indistintamente. Ebbe però il conforto di vedere l’ascesa alla santità della Beata Beatrice, morta nel novembre 1505, e della Beata Dorotea, altra suora che lei aveva accolta e formata.

Solo dopo la sua morte, le sue consorelle hanno ricordato tanti fatti, hanno capito chi era colei che crocifiggevano, solo allora hanno cominciato a ricordare.

Ma lei, dove prendeva tanta forza?....

Era la preghiera, era l’Eucaristia, era la compagnia dei santi.

La sua S. Caterina era a lei vicina e, durante le sue infermità, era la sua infermiera.

Durante questo lungo calvario si trovarono vicine a lei altre sante consorelle domenicane che, pur lontane, erano in prodigiosa corrispondenza. La Beata Osanna da Mantova, morta nel 1505 che l’aveva conosciuta attraversi i racconti di Isabella D’Este, la confortava standole vicina, così la Beata Stefania e la Beata Caterina da Racconigi, al quale aveva avuto il privilegio di essere portata nella sua cella dagli angeli e di parlare con lei.

Credo che ognuno di noi sarebbe impazzito di fronte ad una situazione del genere.

Noi, per i quali il perdono è debolezza, noi che teniamo alle rivincite, non riusciamo certo a capire come una creatura fragile e sincera, che aveva dato tutto, soprattutto tanto amore per il bene di quelle sue consorelle, abbia potuto resistere per oltre 39 anni a quella lotta sorda che le si faceva, al disprezzo, che non si risparmiava di gettarle addosso con un’ipocrisia che mascherava tutto, con il tentativo e l’ostentazione di glorificare Dio e di salvare il buon nome del monastero e della regola.

La carità, la grazia e l’amore di Dio furono certamente il suo sostegno.

Il desiderio di far sue la sofferenze di Cristo le dette forza e la rese vittoriosa nel silenzio.

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XI

VERSO LA CORONA DI GLORIA

Man mano che passavano gli anni, suor Lucia rimaneva sempre più assorta nella contemplazione della Croce e nel desiderio della patria celeste.

La visione dei santi suoi patroni, della Madonna e del redentore la confortavano continuamente.

Sembra che il Signore, per incoraggiarla le abbia un giorno fatto vedere nella gloria del cielo un seggio luminoso, rivelandole che quello era il destino che l’attendeva presto.

Il suo corpo intanto si consumava nella sofferenza e nell’amore verso il Signore e verso le consorelle che lei continuava ad amare.

Le era stato rivelato il giorno e l’ora della sua morte.

Quando si trovò prossima al giorno preannunciato chiese i Sacramenti, che quasi non le volevano accordare perché, tolta una certa spossatezza, non c’erano tracce della gravità del male. C’era la solita cattiveria con cui si giudicava ogni suo atteggiamento, anche questa volta pensarono che si trattasse di isterismo. Alla fine il Cappellano la accontentò e, accompagnato da un piccolo gruppo di suore, si recò nella sua camera.

Ella attendeva serena e piena di gioia.

Si rivolse prima di tutto alle consorelle, chiedendo perdono per non aver saputo dare buon esempio, chiedendo perdono di aver mancato loro di rispetto, si raccomandò alle loro preghiere, pregò di compatire la sua debolezza.

Ricevette i Sacramenti e pregò il Cappellano di non allontanarsi. Questi la accontentò per un po’ di tempo poi, vedendo che non c’era alcun segno di morte imminente, fece per uscire dalla cella.

Alle sue insistenze si fermò ancora.

Intanto si notava qualche cosa di insolito in lei: il suo volto, col trascorrere del tempo, diventava più luminoso. Sorridente e serena si rivolse ai presenti esclamando: "Su, su! Al cielo, al cielo!"

Rimase ancora serena e sorridente, mentre alle consorelle e al Cappellano, sembrava impossibile che quella fosse una morte.

Erano le 2 del mattino del 15 novembre 1544.

Tutte le suore del monastero furono svegliate da una dolce melodia che risuonava nella zona dove si trovava la cella della Beata.

Intanto, mentre le suore custodivano il corpo, rimasero colpite alla vista della ferita del costato aperta e sanguinante.

Quella scoperta fu motivo di immensa meraviglia, ma fu anche motivo di confusione, di sgomento e di rimorso che ne fu sconvolta tutta la comunità, specialmente quelle suore che erano state più accanite contro di lei.

Pentite e confuse si prostrarono davanti al corpo inerte della consorella umiliata, emarginata, che ora era lì avanti a loro, quel corpo reso glorioso dai segni che esse avevano disprezzato.

Baciando quelle stimmate, sentirono il bisogno di riparare a tanto male e a tanta sofferenza che le avevano procurato, tributando un sincero omaggio di venerazione a quelle spoglie mortali che ora apparivano loro come una preziosa reliquia.

Nella città di Ferrara certamente sulla persona di suor Lucia, dopo 39 anni, tutto aveva concorso per far scendere il silenzio. Anche la particolare situazione religiosa e morale, creatasi nella corte ducale, aveva contribuito a far affievolire ancor di più il suo ricordo.

Il Duca Alfonso, fin dall’inizio del suo ducato, aveva trascurato il monastero e anche la vita di corte aveva perduto quel tono di religiosità a cui teneva Ercole I. Dopo la morte di Alfonso, suo figlio Ercole II aveva sposato Renata, figlia del Re di Francia, di religione calvinista che aveva ospitato a corte lo stesso Calvino. Questi fatti avevano rallentato molto la fede e al pratica religiosa.

Quando però il corpo di suor Lucia venne esposto nella chiesa del monastero, non si sa come spiegarlo, fu un accorrere di gente di ogni condizione. Si dovette attendere ancora, prima di procedere alla sepoltura perché tutti desideravano rendere omaggio a quelle venerande spoglie. Dopo tre giorni fu sepolta nel coro del monastero, dove vi rimase per quattro anni.

Nel 1548 fu estratto il corpo dalla tomba, perché si parlava di prodigi operati per la sua intercessione, dunque si pensava alla sua glorificazione e il popolo desiderava renderle omaggio. Si notò che le vesti erano state logorate dall’umidità, mentre le sue carni erano ancora fresche e le stimmate sanguinanti, e dalla tomba emanava un delicato profumo.

Molti malati presenti, che poterono avvicinarsi a quella santa reliquia, ottennero la guarigione delle loro infermità.

Iniziava così il periodo della glorificazione dell’umile serva del Signore, ricca di meriti, che il mondo aveva cercato di schiacciare e dimenticare.

Il corpo rivestito di nuovi abiti, fu messo in un’urna di vetro e sepolto accanto alla grata che si apriva dalla chiesa al coro delle suore, in modo che potesse essere visto da tutti.

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XII

IL CULTO

 

Dal giorno 28 agosto 1548 in cui fu fatta quella ricognizione, si affermò e andò sempre crescendo una vera e profonda devozione verso Lucia e, anche se ancora la chiesa non si era pronunciata, il popolo la chiamava già Beata. Il suo culto continuò costante e il flusso dei fedeli che andavano a venerare la sua tomba, aumentava ogni giorno e cominciò ad essere tributato anche a Narni, a Roma e a Viterbo dove la Beata aveva abitato.

Le suore cominciarono a registrare anche molti fatti straordinari.

Incominciavano anche a raccogliersi le reliquie e ad essere esposte, specialmente a Viterbo e a Ferrara, come pure cominciarono a dipingersi le immagini e anche a scrivere al sua vita. I biografi abbondano in descrizioni di particolari circostanze in cui erano avvenuti fatti straordinari, che rivelavano chiaramente il loro aspetto soprannaturale.

Intanto, di fronte a questo moltiplicarsi di miracoli, al crescere della devozione della Beata, proclamata tale a voce di popolo, il Cardinale Macchiavelli, Arcivescovo di Ferrara, istituì il regolare processo anche in applicazione ai decreti di Urbano VIII, relativi al culto dei Santi e, il 15 novembre 1647, emise una sentenza con la quale si riconosceva il culto popolare ininterrotto e fece raccogliere documenti scritti e testimonianze relative alla vita della venerata suora.

Il 15 novembre di ogni anno, nel monastero di S. Caterina a Ferrara, si riuniva una grande moltitudine di popolo, si esponevano anche i cilizi e le catene, e questo durava da oltre un secolo. Si celebrava anche la S. Liturgia solenne alla presenza del Vescovo e del Cardinale Legato della Romagna ma, nel settembre del 1666, forse per il verificarsi di qualche abuso, il Generale dei Domenicani ordinò che il corpo della Beata Lucia si mostrasse solo il 15 novembre e fosse proibito negli altri periodi dell’anno. Però questo non fece diminuire né il flusso di gente, né la devozione.

E si continuò a parlare di fatti straordinari.

Ai primi del 1700, il Vescovo di Ferrara, Cardinale Dal Verme, volle che il culto della Beata si tutelasse dell’approvazione della Congregazione. Purtroppo, come molte volte avviene, certe pratiche sembrano muoversi con il rallentatore, e questo era il caso del processo di suor Lucia.

Nel 1690 era stato promosso Cardinale il cittadino narnese Giuseppe Sacripante, Datario Pontificio e Prefetto della S. Congregazione di Propaganda Fide, uomo di grande prestigio il quale, insieme al Generale dei Domenicani, fece pressione sulla S. Congregazione dei Riti affinché riconoscesse e approvasse il decreto del Cardinale Macchiavelli, confermando il culto che, dalla sua morte, il popolo tributava alla Beata.

Il I marzo 1710 il Papa Clemente XI emanò un breve nel quale confermò il culto della Beata Lucia.

Grandi festeggiamenti si tennero a Viterbo, a Ferrara e a Narni che durarono molti giorni.

Però, per il demonio, la Beata Lucia era un personaggio fastidioso e quindi si spiega come la sua opera in vita e il suo culto dopo la morte fossero stati tanto ostacolati.

Nel 1738 i Domenicani di Palma di Maiorca avevano esposto e diffuso, alla venerazione dei fedeli, un’immagine della Beata con i segni delle stimmate. Ciò non fu ben visto dai Frati Minori osservanti, che contestavano il fatto delle stimmate, e il Vescovo di quella città proibì l’esposizione dell’immagine.

Ne derivò una disputa a non finire tra i Domenicani, forti della documentazione che riportava gli esami fatti sulle stimmate della Beata Lucia, e i Francescani, i quali invece, si facevano forti dei dubbi avanzati circa il prodigio, e che avevano provocato tanti esami, senza però tener conto delle conclusioni a cui erano venuti i diversi inquisitori che avevano trattato molte volte l’argomento.

Ma l’opposizione dei Francescani, in fondo, era soprattutto motivata da un certo gretto timore che il riconoscimento delle stimmate, in troppi casi, facesse sottovalutare l’importanza del privilegio soprannaturale e quindi potesse nuocere alla singolarità del dono fatto a S. Francesco.

Certamente S. Francesco dal cielo avrà guardato con senso di benevolenza, ma anche di commiserazione, tanti eccessi di zelo.

Il Vescovo di Maiorca sottopose il problema alla S. Congregazione dei Riti.

I Domenicani presentarono un promemoria ed un’istanza perché la questione fosse presto risolta, anche tenendo presente l’impressione negativa avuta da popolo di Maiorca.

I Francescani presentarono le loro osservazioni in una lunga dissertazione, sottoscritta da quattro avvocati, di 67 punti con l’aggiunta di un sommario.

I Domenicani, venuti in possesso delle documentazioni dei Minori, il 20 gennaio 1740, in due giorni, compilarono la risposta analizzando il fatto, gli esami, gli attestati relativi al processo di Beatificazione di Lucia e il 23 gennaio 1740, giorno della discussione della vertenza, presentarono ai Cardinali il documento.

Il 23 gennaio, all’unanimità, la S. Congregazione dei Cardinali stabilì che non c’era motivo di mettere in dubbio la realtà delle stimmate e, da quell’anno 1740 in febbraio, nel monastero di S. Caterina da Siena si celebrò la festa delle S. Stimmate della Beata Lucia.

Nell’ultima ricognizione fatta nel 1935, in occasione della traslazione del corpo della Beata da Ferrara a Narni, i medici che hanno eseguito l’esame delle venerate spoglie, ad un certo punto della descrizione notano:"Sotto il seno sinistro si nota un abbassamento della pelle come se si trattasse di una cicatrice, ciò fa pensare alle stimmate del costato, mentre non si nota nulla sulle mani a causa del tarlo che ha alterato la pelle".

A questo punto avremmo concluso la descrizione del cammino si Santità di Lucia da Narni e l’affermazione del culto, però crediamo sia il caso di aggiungere qualche riflessione sui vari aspetti che vengono evidenziati nella figura della Beata Lucia.

Non dispiacerà ai lettori se ci dilungheremo ancora per qualche pagina.

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Istituto Beata Lucia

  

XIII

 

ALCUNE RIFLESSIONI

 

Dopo aver seguito la vita della Beata Lucia nei primi trent’anni, piena di fatti grandiosi che hanno richiamato su di lei l’attenzione di gente del popolo, di nobili, di politici, di Vescovi, di potenti e perfino del Papa, ci accorgiamo quasi improvvisamente che ella si nasconde, quasi scompare, schiacciata dalla calunnia, dal disprezzo e dall’abbandono, proprio nel luogo dove avrebbe dovuto regnare sovrano l’amore.

Non crediamo che si possa rimanere insensibili di fronte a certi avvenimenti, quasi fossero in un mondo che non ci interessa, ormai superato.

Nella vita di Lucia Broccadelli noi abbiamo visto tante cose che avrebbero potuto essere il sogno di una giovanetta di tutti i tempi: nobiltà, agiatezza, bellezza, intelligenza, attenzione di giovani che aspiravano ad avere la sua mano. Tutte queste cose sembra che non la tocchino affatto, la sua inclinazione fin da piccola, ha un orientamento diverso da quello comune.

Non erano stati certo i suoi genitori a suggerirlo.

Sappiamo bene che essi desideravano per lei un buon partito, un bel matrimonio e guardavano con compiacenza l’attenzione, rivolta su di lei, di giovani nobili e ricchi. Sappiamo, però, che al primo accenno su questo argomento, il padre Bartolomeo dovette capire che sua figlia, quindicenne, non condivideva affatto il suo punto di vista e decisamente affermava che la sua strada era diversa, tanto è vero che lui credette opportuno differire la proposta, ciò che non poté, tuttavia, realizzare essendo venuto a morire.

Giunse al matrimonio che si presenta però strano.

Lo sposo, poco più che ventenne, innamorato, che la vuole ad ogni costo, si guarda bene dall’imporre condizioni e accetta quanto lei pretende: il rispetto del voto di verginità, nella speranza che poi la consuetudine di vita e la sua dolcezza riescano a cambiare i suoi propositi.

Lei che sente la piena responsabilità di un voto, concepito a 7 anni e fatto a 12, forse è stanca di lottare contro tutti. Accetta, ma mette delle condizioni.

La sua verginità appartiene a Gesù Cristo.

Confida nell’aiuto di Dio e anche lai ha una speranza, la stessa del giovane sposo, cioè che egli in seguito cambi parere. Spera di comunicargli l’entusiasmo per una vita consacrata.

Grandi fatti straordinari accompagnano l’infanzia e la giovinezza di Lucia, li testimoniano i suoi familiari, i servi, lo stesso sposo.

I suoi agiografi sono concordi nel narrare le manifestazioni, le apparizioni e le estasi.

Tutto è ampiamente documentato.

Un giorno la sua santità di vita, la sua carità, la comprensione, la compassione per tutti, non hanno più nessun valore. Subentra nella sua vita il silenzio, la segregazione, il disprezzo di tutta una comunità, l’indifferenza della corte di Ferrara, il disinteresse dei suoi Superiori dell’ordine che pure l’avevano tanto stimata.

Viene spontaneo domandarsi: in tutto questo si può scoprire un messaggio che vale ancora per l’uomo di oggi?

La storia è una storia di oggi, oppure fa parte di un lontano passato?

La storia della Beata Lucia, gli atteggiamenti del mondo del suo tempo, ancora oggi si ripetono: l’uomo rimane sempre schiavo delle proprie passioni come allora. Come in ogni tempo la vanità, la superbia, la prepotenza e l’egoismo sconvolgono la vita umana.

I rapporti tra le persone hanno sempre qualche cosa che li condiziona. Dal rapporto che abbiamo con le persone, derivano gioia e serenità, oppure inquietudine e sofferenza che proviamo o di cui siamo la causa.

Ecco perché la legge suprema che regola i rapporti umani, che rimane sempre valida è quella dettata da Dio: "la legge dell’amore".

Possiamo così spiegare come la perfezione dell’uomo, che lo fa immagine di Dio, è fondata sulla capacità di amare, perché gli offre l’occasione di imitarLo. La capacità dell’amore non è legata ad una forma di vita, ma si può vivere in ogni momento e dovunque.

La Beata Lucia ha saputo amare, per questo ha raggiunto una vetta eccelsa di santità. Se noi esaminiamo bene i vari aspetti della sua vita, scopriamo che l’ansia di tutto era un profondo amore, per cui donava a Dio tutta se stessa per portare il suo contributo all’opera di salvezza del Cristo.

Essendo l’opera della salvezza un supremo atto d’ amore da parte di Dio per l’uomo, lei voleva viverlo in tutte le sue manifestazioni. Questo suo amore per il Signore si manifestò subito, fin dall’infanzia, assecondando l’azione di tutti quei carismi di cui Dio l’aveva dotata con un impegno di vita soprannaturale, che era superiore alla sua stessa età.

L’amore per il prossimo fu la vera testimonianza in cui si concretava per lei l’amore di Dio. Non c’era occasione in cui si risparmiava, anche bambina, di aiutare chi soffriva.

Quando a 15 anni andò sposa e si trovò a dirigere una casa, con tutte le esigenze del suo ceto sociale e con la numerosa servitù, il suo comportamento era del tutto singolare. I suoi dipendenti si accorsero subito che c’era qualcosa di straordinario nel rapporto con la Signora. Con grande meraviglia di tutti, anche nostra, la vediamo trattenersi con loro, gentile, comprensiva, preoccupata del loro bene e della loro salute.

Essi passavano con gioia insieme a lei alcuni momenti della giornata quando li radunava per la preghiera. Compresero che voleva che si sentissero guidati anche nel cammino della vita spirituale, per cui ascoltavano molto volentieri i consigli e le raccomandazioni. Erano felici di aiutarla nelle opere buone e nel soccorso dei poveri.

Sembrava che in quel momento a Narni non vi fosse più miseria, perché la carità di Lucia arrivava dovunque, si aveva l’impressione che nelle sue mani,le ricchezze della sua casa si moltiplicassero.

Ma la sua preoccupazione nel soccorrere il prossimo, era quella di non creare loro disagio, infatti spesso era lei di persona che si presentava nelle famiglie, specialmente in quelle dove la miseria crea anche umiliazioni per il mutamento della sorte.

In quell’epoca era nelle usanze dei ricchi aiutare i bisognosi, ma il gesto ordinariamente faceva sentire, come ancora nella maggior parte dei casi, la distanza tra donante e ricevente, anzi la accentuava.

Per la Beata Lucia invece, era programma costante che la sinistra non conoscesse quello che faceva la destra e, come abbiamo visto, spesso si era trovata in difficoltà per la sua discrezione, perché non voleva che nemmeno suo marito conoscesse certe situazioni di famiglie, anche di conoscenti.

Dove però l’amore per il prossimo raggiunse la sua più alta espressione fu nei 39 anni della sua sofferenza morale. Umiliata, provata, calunniata, ha taciuto ed ha offerto al Signore tutto quanto doveva sopportare, perché servisse per il bene delle sue consorelle.

La sofferenza era diventata strumento di bene, accettata e voluta.

Ha chiesto al Signore perfino che scomparissero i segni della Passione. Pur rimanendo nella sofferenza, lei voleva della partecipazione alla Passione conoscere solo il dolore, che era non solo fisico, per il tormento che dalle ferite derivava alle sue membra, ma anche morale e soprattutto tale, perché la metteva in condizione di non essere creduta e capita dalle sue consorelle.

La santità della Beata Lucia si riassume nel suo grande desiderio di soffrire con Cristo. Attraverso la sofferenza, voleva attivamente contribuire all’opera della salvezza, vivere in tal modo l’amore di Cristo e dei fratelli

In quella condizione il perdono è visto da Lucia, come la manifestazione più alta dell’amore, ed è vissuto e praticato come tale. Basti ricordare quanto accadde negli ultimi momenti della sua vita, quando ha chiesto perdono alle consorelle presenti.

Ma allora ci viene spontaneo chiederci: che cos’è l’affermazione della personalità?

La realizzazione di se stessi?

L’affermazione dei propri diritti, di cui tanto si parla?

Il comportamento della Beata Lucia che cosa ci insegna?

Che cosa è cambiato nel mondo?

Sono tanti gli interrogativi che hanno assillato l’uomo, ma le situazioni non mutano.

Gli esempi straordinari, spesso, sembra che non ci dicano niente, noi ci comportiamo sempre allo stesso modo, lasciandoci influenzare dalla mentalità del mondo che ci circonda, e il mondo rimane sempre lo stesso con le sue invidie, gelosie, egoismi e cattiverie di ogni genere.

Se amiamo il prossimo dobbiamo aiutarlo a realizzare se stesso: dobbiamo rispettare i diritti della sua persona e la sua dignità. Ma di fronte al modo con cui veniamo trattati, la virtù sta nel vincere in bontà i torti ricevuti: anche questa è testimonianza d’amore.

Cristo rimane sempre lo stesso, quello che sul Calvario pregava per i suoi crocifissori.

Di fronte a un mondo di chiacchiere, è necessario opporre una testimonianza di fatti, che è testimonianza d’amore e l’amore non cerca quello che è proprio, ma il bene della persona che si ama.

Questo è l’esempio di Cristo e noi onoriamo i Santi perché ce Lo rendono accessibile, traducendoci la Sua vita nei vari linguaggi della vita umana.

Se vivremo così renderemo la Terra più abitabile. 

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XIV

IL CULTO DELLA BEATA LUCIA A NARNI

Il culto della Beata Lucia è diffuso in tutto il mondo attraverso l’ordine Domenicano, la sua festa è inserita nel calendario universale dell’ordine stesso.

A Ferrara il culto è ancora presente come ho potuto constatare dagli scritti che si riferiscono a lei, che vanno dalla trattazione popolare alla trattazione scientifica, specialmente per merito dello storico ferrarese Mons. Dante Balboni.

Qualche anno fa, nel 1976, il centenario della nascita della Beata offrì l’occasione al P. Centi dei Domenicani di pubblicare sulla rivista "La Patrona d’Italia", un articolo interessantissimo sulla Beata Lucia e su S. Caterina da Siena, nel quale metteva in evidenza come la spiritualità della Beata ha il suo fondamento nella spiritualità di S. Caterina.

Da oltre 30 anni lavoro presso la Curia vescovile ed ho avuto occasione di ricevere richieste di reliquie o copie della biografia della Beata da diverse parti del mondo. Nel 1958, fu richiesta una reliquia da un sacerdote degli Stati Uniti; nel 1967 da una parrocchia dell’America Latina; nel 1975 dalla Francia. Una biografia fu richiesta dall’Australia nel 1976 e ancora, nel 1981, da un signore dall’Inghilterra perché voleva farla leggere alla figlia di 20 anni, desiderosa di conoscere la spiritualità della Beata Lucia. Queste sono solo alcune richieste, ma posso attestare che ce ne sono state molte altre. La bibliografia relativa alla Beata è molto vasta, pubblicata da illustri autori e di diverse parti.

Quello però che vorremmo particolarmente ricordare è la sua memoria nella città natale.

Quali sono prima di tutto i ricordi?

La sua casa, accanto alla chiesa di S. Agostino, oggi trasformata in parte in abitazioni private ed in parte rimasta di proprietà del Comune, era stata adibita, dai primi del secolo fino agli anni 60 a carcere mandamentale.

La chiesa di S. Agostino, è la chiesa dove è stata battezzata. In essa si conservava un’immagine della Madonna in terracotta del sec. XV, che purtroppo è stata rubata nel 1975.

La chiesa di S. Domenico, antica cattedrale dedicata alla Madonna ( Santa Maria Maggiore) e così chiamata perché tenuta dai Domenicani, è la chiesa delle estasi e delle sue confessioni. Essa oggi è auditorium-museo, pinacoteca comunale dopo un secolo di profanazione da parte dell’Italia Minore della II metà del secolo, che l’aveva ridotta a stalla per i cavalli e scarico delle cose ingombranti e dei rottami della città.

Un ricordo veramente degno è nella cattedrale con la Cappella a lei dedicata, dove si conservano le sue spoglie. Edificata da Cardinale Giuseppe Sacripante nel 1710, di bella architettura settecentesca ad imitazione delle diverse cappelle delle Basiliche Romane.

Ma quelle che Narni ha curato nei secoli, è stato l’edificio spirituale del culto e della devozione verso la Beata, che questo scritto vorrebbe ravvivare, ricordando che le memorie del passato non sono da considerarsi come tanti rimpianti del tempo che fu, ma stimolo per costruire un mondo migliore.

Il culto della Beata Lucia si è avuto a Narni fin dalla morte.

Nel 1710, con il decreto di Beatificazione, il culto della Beata a Narni si affermò ancora di più, anche per l’interessamento, come abbiamo visto, del Cardinale Sacripante che era stato valido sostenitore della causa presso la S. Congregazione dei Riti.

Il Cardinale Sacripante poi, per onorare ancora la Beata Lucia, istituì una scuola nel 1712, per la gioventù femminile della città, nella casa dove era nata mettendola sotto la sua protezione e l’affidò alle maestre pie Venerini che furono accompagnate sul posto dalla stessa fondatrice, suor Rosa Venerini.

Nel 1739, quando il delegato apostolico Mons. Caracciolo istituì il Brefotrofio o Pontificio Ospedale degli Esposti, volle che fosse dedicato alla Beata Lucia, colei che a Narni era stata chiamata : la Madre dei Poveri e nell’edificio, realizzato nel 1741, fece costruire una chiesa bella anche se piccola, per la quale fu commissionata una pala d’altare al pittore Stefano Parocel.

Anche quando fu edificato negli anni 1714-20 il Santuario della Madonna del Ponte, il Cardinale Sacripante che curò erezione delle due cappelle laterali, ne volle una dedicata alla Beata Lucia commissionando la tela allo stesso pittore Parocel.

Tutti questi fatti servirono ad incrementare tra il popolo la devozione della Beata, tenuta viva in modo particolare dai Padri Domenicani della chiesa di S. Maria Maggiore.

Agli inizi del secolo, col sorgere dell’Azione Cattolica femminile, si credette opportuno dedicarla alla Beata Lucia, per poter camminare più sicuri sotto la sua protezione e per poter mostrare alle giovani, alle madri e alle spose narnesi il modello di una femminilità coraggiosa, prudente e irradiante il vero amore.

Ogni anno il 15 novembre prima, e, dopo il 1962, il 16 novembre, la sua festa era celebrata con grande afflusso di popolo preceduta da un triduo di predicazione, molto spesso tenuto da un padre Domenicano e il 25 febbraio c’era il ricordo delle stimmate.

Nel 1890, quando il Vescovo Boccanera volle istituire la scuola cattolica a Narni affidandola alle suore di S. Anna, per le ragazze costituì una scuola di lavoro, dedicata alla Beata Lucia, nei locali che il capitolo della Cattedrale aveva messo a disposizione del Vescovo. Questa scuola, detta comunemente il laboratorio di S. Alò dalla denominazione dei locali e affidata all’insegnamento delle suore, era gestita dalla nobildonna Adele Stame, che aveva consacrato la sua vita per circa 50 anni alla formazione delle giovani narnesi, e dalla sorella Teresa.

E’ stata questa un’istituzione che ha formato centinaia di madri di famiglia che, quando l’anticlericalismo dozzinale della più bassa lega tentava di scardinare le basi cristiane della famiglia, seppero tener fede ai loro principi e si imposero ai loro mariti, esigendo la celebrazione del matrimonio religioso, il battesimo e gli altri sacramenti per i figli e soprattutto l’educazione religiosa, tanto che qualche marito più testardo si dovette accontentare di fingere di non sapere.

Dobbiamo proprio a queste madri la ripresa della vita religiosa fino agli anni trenta, che neutralizzò in gran parte gli sforzi dei movimenti laicisti, che erano il parto della massoneria che aveva regnato negli ultimi decenni del secolo XIX e nel 1° e 2° decennio del XX, nella nostra città.

Ma per venire più vicino a noi, ricordiamo come nel 1931 il gruppo dei giovani dell’A. C. maschile e femminile rimase stretto all’ideale della propria organizzazione, specialmente la gioventù femminile di allora si sentì unita, intorno a quelle presenze apostoliche dei loro sacerdoti assistenti e delle loro dirigenti , sotto il nome della beata Lucia.

Molti ancora sono quelli che ricordano il 23 agosto del 1932, l’omaggio alla Beata Lucia nella Cattedrale di Ferrara, quando il treno speciale, che portava a Padova il pellegrinaggio di oltre 500 persone della Diocesi di Narni, guidato dal Vescovo Mons. Cesare Boccoleri e dall’allora Vicario Generale di Narni Mons. Paolo Galeazzi, fece sosta nella città. Fu una tappa voluta dal Vescovo e dal Vicario, ma insieme richiesta da tutti i narnesi.

Fu una presenza che convinse il Vescovo e il Capitolo della Cattedrale di Ferrara a dare il consenso delle SS. Spoglie della Beata..

Da quel giorno si può dire che cominciò l’attesa. Con la preghiera e le richieste insistenti presso gli uffici responsabili si ottenne la risposta definitiva da parte della S. Congregazione del Culto dei Santi, che allora si Chiamava S: Congregazione dei Riti, il permesso che convalidava il consenso dei ferraresi.

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LE GRANDI CELEBRAZIONI DEL 1935

Un comitato, composto da elementi del clero e del laicato di diverse parti della Diocesi, sotto la presidenza del Vescovo iniziò a lavorare oltre un anno prima. E, come meta da realizzare, fu elaborato un programma di intensa preparazione pastorale che esaminasse tutta l’organizzazione: giornate di preghiera, conferenze, diffusione della stampa….

L’Osservatore Romano della Domenica, attraverso la pagina diocesana di Narni, per oltre un anno, ogni settimana, illustrava un aspetto della figura della Beata Lucia.

Quindici giorni prima che giungesse a Narni l’insigne reliquia, si tenne un corso straordinario di Missioni condotto da Missionari Imperiali, guidati dal Servo di Dio Mons. Pietro Scavizzi. Ad esso seguì un ottavario di celebrazioni particolari, che si concluse con una giornata solennissima straordinaria.

Tralasciamo tanti particolari della manifestazione, solo ricordiamo la partecipazione durante la settimana di diversi Ecc.mi Vescovi dell’Umbria, che ogni giorno presiedevano solenni celebrazioni e predicavano, e la presenza di un Cardinale e di dieci Ecc.mi Vescovi per la giornata conclusiva.

Inoltre, la partecipazione di gruppi, associazioni e confraternite di tutte le parrocchie della Diocesi di Narni e di alcune parrocchie di Terni al completo. I Capitoli delle Cattedrali di Terni e Narni ed una rappresentanza di Amelia, data la cordialità dei rapporti sempre intercorsa tra Narni e Amelia.

Una folla immensa affollò la città, per tutta la giornata, passando davanti a quella Santa Reliquia.

Ma quello che diversi di noi, anche se in quell’epoca ragazzi, possono attestare fu il numero delle vere e proprie conversioni di narnesi.

Questo lo diciamo, non per confermare quelli che parlando della città di Narni pensano che fosse una cajenna, ma solo per dire che purtroppo Narni, come altre città dell’Umbria e dell’ex Stato Pontificio, era stato un terreno arato e scavato dagli aratri della massoneria imperante nel Risorgimento che aveva creato l’indifferenza religiosa, un’indifferenza alimentata dalla campagna anticlericale e antipapalina; era la città che dalla storia dell’epoca Romana al Risorgimento, è stata sempre una città di confine rispetto a Roma.

A questa sua posizione deve anche la sua fama ed il ruolo occupato nella storia, specialmente nell’Alto Medioevo e nell’epoca dei Comuni.

La penetrazione a Roma dal nord dell’Italia doveva passare attraverso la porta di Narni. In fondo anche Annibale ed Asdrubale trovarono l’ostacolo che fece allungare l’itinerario per l’Italia Meridionale.

Era però una città gelosa della propria libertà, specialmente quando era difficile distinguere religione e politica come in certi momenti del Medioevo. Ciò spiega come alcuni eretici da Roma si potevano rifugiare a Narni.

Ma non bisogna dimenticare che quando certi imperatori con i loro eserciti andavano minacciosi a Roma, fosse proprio la città di Narni con suo rischio a porre fiera resistenza per la difesa di Roma.

Durante il Risorgimento vari capi del movimento avevano come punto di riferimento Narni, qui tenevano il loro collegamento con la capitale e il Lazio. Ciceruacchio, quando fuggì da Roma, trovò asilo sicuro presso gli amici di Narni.

Tutto questo però, aveva come conseguenza il crearsi di un clima molto singolare nei riguardi della chiesa, con un senso di ribellione e discredito nella confusione tra chiesa e potere temporale. Di conseguenza anche la pratica religiosa, la stima per gli uomini di chiesa, subirono un influsso negativo soprattutto perché produsse grande piaga del rispetto umano sulla massa degli uomini e nella lotta da parte dei capi culturali un’ostilità molto accentuata, aggravata anche dai tanti opportunisti che, abituati a tenere posti di prestigio sotto lo Stato Pontificio, mutate le circostanze, mutarono bandiera, e, per far dimenticare il passato, si gettarono nella campagna denigratoria riuscendo così ad accrescere il loro patrimonio, favoriti nell’acquisto delle proprietà ex ecclesiastiche.

Il clima nel 1935 in parte era ancora quello. La chiesa sembrava riservata alle donne. Però, con ciò, non dobbiamo certo tacere un movimento di rinnovamento, particolarmente quello dell’A.C., che si affermava fin dai primi del secolo, e già negli anni 20 cominciava ad avere le sue manifestazioni di massa.

C’era però la mezza età ancora legata agli schemi vecchi che però andava spianando la faccia, per quanto riguardava il rapporto umano, ma rimaneva lontana dalla pratica religiosa. C’erano stati momenti di scossa specialmente nelle famiglie, frutto dell’ A.C. e dell’azione di venerandi sacerdoti che avevano dato dei risultati discreti.

L’occasione della traslazione della Beata Lucia fu veramente provvidenziale. Fu indetta per la circostanza una grande missione e, durante questa, si cominciò a toccare con mano l’azione soprannaturale e cominciarono ad impressionare le riconciliazioni con la chiesa di alcuni vecchi massoni e anticlericali.

Fu veramente un cambiamento di clima quello determinato dalle Missioni, che portarono l’avvicinamento di tante persone. L’azione della grazia e l’azione pastorale furono coadiuvate dalla riscoperta di questa Santa figura, la Beata Lucia.

Essa ripresentò a certe persone come un personaggio storico di grande rilievo. La scoperta degli aspetti puramente culturali, portò ad approfondirne al conoscenza e al contatto con la sua santità, nel clima della Missione, il Signore trasformò in stimolo verso la conversione anche il "cittadino orgoglio", fiero dei personaggi illustri che avevano reso grande la città.

La ripresa spirituale della vita cittadina ebbe le sue grandi manifestazioni, e per oltre 10 anni durò l’efficacia di quella che fu una vera pentecoste, che purtroppo fu sconvolta dallo sbandamento che sopraggiunse negli anni sessanta.

Ma la Beata Lucia, anche se i suoi concittadini hanno raffreddato il loro entusiasmo, continua a vegliare su di essi e l’occasione del cinquantenario della traslazione delle sue reliquie porta certamente un nuovo impulso verso la realizzazione di un mondo migliore.

 

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si ringrazia Cotini Giuliana nipote di don Gino Cotini

la Parrocchia di Narni

L'Istituto Beata Lucia 

bibliografia aggiornata per approfondimenti

Immagini su concessione della Diocesi di Terni-Narni-Amelia - Ufficio per i Beni Culturali ecclesiastici (autorizzazione 099/10).
 

 

 


 

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